Un documentario presentato come contro-informazione è invece un video di propaganda per gli ayatollah
ROMA – Teatro Flavio. Domenica sera. Con qualche minuto di ritardo, dovuto al passaggio della processione del Corpus Domini, inizia la proiezione. Siamo a Colle Oppio, a due passi dal Colosseo. Papa Leone XIV e l’Imman quasi si incrociano. La platea è piena, sguardi assorti, pubblico militante. In programma c’è “Rivoluzione”, un documentario presentato come “contro-informazione”, in realtà più simile a un video di propaganda vecchio stile, degno dei cinegiornali dell’Istituto Luce: immagini solenni, montaggio enfatico, colonna sonora epica, inquadrature statiche e messaggi netti. Un bianco e nero che fa da contraltare all’altra propoganda: Trump, il berretto da baseball “Make America Great Again” che rivendica la “missione chirurgica” dei suoi bombardieri B2. “Make America Great Again”.
L’ultimo baluardo è l’Iran
L’obiettivo è chiaro: dimostrare che l’Iran è oggi l’ultimo baluardo contro l’imperialismo occidentale. La serata è stata organizzata da “ComedonChisciotte”, un sito di “informazione indipendente” che svaria dalla politica estera alle reazioni avverse ai vaccini. “Sono i nostri pasdaran”, scherza un signore all’entrata.
La narrazione è manichea: da una parte l’Occidente, il nemico globale”, che appicca guerre e fomenta rivoluzioni colorate per destabilizzare i popoli e saccheggiare le loro risorse; dall’altra parte l’Iran, descritto come una repubblica islamica spirituale, ordinata, resistente, fondata sulla fede e sulla sovranità. Dietro le immagini il repertorio in bianco e nero della retorica di regime. Un documentario che cela più omissioni che verità.
Le critiche a Trump
Una delle critiche sollevate nel documentario è quella contro l’amministrazione Trump. Nel 2020, infatti, gli Stati Uniti ordinarono l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani con un attacco mirato, mentre erano ancora in corso i delicati negoziati per il rilancio dell’accordo nucleare del 2015. Una decisione devastante sul piano diplomatico, che ha fatto deragliare ogni possibilità di ripresa del dialogo. Il messaggio era chiaro: l’America non solo non riconosceva più gli accordi firmati, ma era disposta a usare la forza in pieno disprezzo delle regole della diplomazia. Nessuna “pace imposta” e nessuna “guerra imposta” a colpi di bombe. E su questo niente da dire, non fa una grinza.
Ma se da un lato questa critica per molti ha un suo fondamento, dall’altro nel documentario non c’è traccia dell’ambiguità dello stesso regime iraniano nel trattare con la comunità internazionale, né delle sue manovre regionali, né della repressione interna.
In una delle sequenze centrali del film scorrono le immagini di Volodymyr Zelensky. Non una parola, però, sull’aggressione russa del 2022, nessuna menzione sull’invasione dell’Ucraina, nessun cenno ai civili uccisi, alle città rase al suolo. Zelensky è ridotto a marionetta dell’Occidente. La Russia non viene nemmeno nominata. Silenzio assoluto. È un’omissione rivelatrice: per il film, solo il Sinionismo, Israele e l’Occidente, unite insieme in un unico involucro, possono essere colpevoli. Gli altri attori, se anti-occidentali, sono automaticamente assolti.
Zelensky un nemico, silenzio su Mosca
Zelensky nel docufilm è il simbolo della decadenza e della manipolazione mediatica occidentale. Eppure, tra slogan e didascalie. Il silenzio su Mosca è assordante, coerente con la linea che trasforma tutti i nemici dell’Occidente in eroi di resistenza. Ma la selettività dell’indignazione è evidente.
Il momento clou della contro-informazione diventa disinformatio quando viene citato un articolo della Costituzione iraniana in base al quale è garantita libertà di espressione e di stampa. Lo spettatore minimamente informato non può che rimanere interdetto. Nessun accenno ai giornalisti incarcerati, agli intellettuali torturati, agli oppositori condannati a morte, alle ragazze picchiate per un velo fuori posto, agli abusi e allo strapotere dei guardiano della Rivoluzione. Nessuna menzione del pugno duro con cui il regime reprime il dissenso, alle impiccagioni, né delle proteste scoppiate nel 2022. E ci sarebbe in definita anche la nostra Cecilia Sala tenuta in isolamento nel carcere di Evin.
Anzi, la protesta delle donne iraniane viene sminuita e ridicolizzata: per il documentario è una “montatura occidentale”, creata a tavolino per destabilizzare la Repubblica Islamica. La morte di Mahsa Amini, simbolo della rivolta e icona globale della campagna “Woman, Life, Freedom”, viene liquidata come un evento naturale: “non fu uccisa morì per un ictus cerebrale”. Il film mostra persino un video diffuso dalla polizia in cui la giovane cade a terra e sviene, a dimostrazione (secondo gli autori) che la narrativa dell’omicidio sarebbe falsa. Peccato che le indagini indipendenti, le testimonianze e le stesse proteste di massa raccontino una storia molto diversa.
Nel crescendo propagandistico, non manca un’accusa che rasenta il complottismo puro: i militanti dell’ISIS, secondo la voce narrante, sarebbero stati “addestrati dalla NATO” per destabilizzare la regione. Una tesi priva di prove concrete, già circolata in ambienti cospirazionisti e mai dimostrata. È una narrazione comoda: se tutto il male viene dall’Occidente, allora ogni violenza locale è una reazione legittima, ogni regime autoritario è solo un baluardo difensivo, un alternativa al caos.
Un rituale ideologico: “Nato terrorista”
Al termine della proiezione si apre il dibattito. Tra gli oratori, Paolo Borgognone, pantaloncini corti e T-Shirt stride, abbigliamento che stride con a dishadasha lunga fino alle caviglie dell’Imman che siede accanto. Il saggista astigiano da anni denuncia il sistema occidentale come “fabbrica del caos”. Il suo intervento è un collage di accuse: l’Occidente esporta guerre, disumanizza i popoli, impone un ordine senza Dio. “stiamo assistendo al solito cliché, l’esportazione della democrazia. Lo stesso che abbiamo già visto al tempo di Saddam Hussein”. L’Iran, invece, sarebbe la “resistenza spirituale”, un esempio di coerenza morale in un mondo corrotto.
Si arriva a paragonare la NATO a un’organizzazione terroristica, a denunciare l’intelligenza artificiale come “strumento cieco” e a indicare come “distrazioni di massa” tutte le battaglie occidentali – dai diritti civili alle politiche green. Il linguaggio è enfatico, il pensiero schematico, la complessità questa sconosciuta.
Il problema non è criticare l’Occidente – operazione legittima, anzi necessaria – ma farlo con lucidità, con fonti affidabili, evitando di sostituire una propaganda con un’altra. Invece, “Rivoluzione” finisce per essere un esercizio di disinformazione ben confezionata, dove ogni contraddizione viene rimossa, ogni verità scomoda occultata.
La serata al Teatro Flavio avrebbe potuto fornire uno sguardo oltre le narrative dominanti. Si è trasformata in un rituale ideologico, dove la critica all’Impero d’Occidente è servita in salsa teologica, senza mai sporcarsi le mani con la realtà concreta dell’Iran, della Russia o di qualsiasi altro “resistente” di turno. Il rovesciamento delle bandiere. Con la stessa logica, lo stesso dogmatismo. Le stesse omissioni.