Il direttore di Huffington Post commenta il voto dell’Europarlamento sull’immunità di Moretti e Gualmini e ragiona di garantismo, giustizialismo e della crisi della nostra democrazia
«L’inchiesta sul Qatargate era segnata da un “fumus persecutionis” fin dall’inizio. Quando è stata arrestata Eva Kaili le è stato detto: o parli o non rivedrai più tua figlia». Mattia Feltri, direttore di Huffington Post, firma de La Stampa e autore di Novantatré. L’anno del terrore di Mani Pulite (Marsilio), commenta il voto dell’Europarlamento, che si è tradotto nella revoca all’immunità di Alessandra Moretti, coinvolta nell’inchiesta per presunta corruzione di membri del Parlamento Ue.
Direttore, cosa la colpisce del voto di ieri?
«Sono allibito dal fatto che il parlamento europeo abbia votato, prima in commissione e poi in plenaria, accettando la richiesta dei magistrati di Bruxelles».
Perché allibito?
«L’inchiesta del Qatargate è iniziata nel dicembre del ’22, quando furono arrestati, tra gli altri, Eva Kaili e suo marito. Bene, dopo tre anni abbiamo il patteggiamento di Panzeri e nessun altro atto ufficiale. Nel frattempo, sono finiti sotto indagine gli inquirenti stessi – Hugues Tasiaux e Bruno Arnold – per violazione del segreto istruttorio, violazione del segreto professionale e violazione della vita privata».
Noi italiani siamo abituati a questo tipo di violazioni, sono quasi la norma.
«Invece rappresentano un tradimento della propria funzione istituzionale».
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Quando è iniziata l’inchiesta si è alzato un coro di condanna per la corruzione di Bruxelles.
«Intervenne persino Papa Francesco, dicendo che la corruzione è il male della politica. Per come era stata annunciata, quest’inchiesta avrebbe dovuto ribaltare l’Europarlamento, coprirlo di vergogna per le tangenti dal Qatar. Dopo tre anni l’inchiesta si è quasi ribaltata sugli inquirenti stessi. Anche solo per questi motivi il Parlamento avrebbe dovuto respingerla. Se dopo tre anni non si è arrivati a un rinvio a giudizio, c’è un fumus persecutionis in sè».
La politica ha deciso anche in questo caso di fare un passo indietro e di lasciar fare i magistrati?
«Il Parlamento avrebbe dovuto proteggere i propri esponenti già all’inizio. Per arrestare il vicepresidente del parlamento Ue devono esserci delle basi che evidentemente sono mancate, se dopo tre anni Eva Kaili non è nemmeno stata rinviata a giudizio. Ora ci sono ricascati. Poi a marzo si sono trovate coinvolte Gualmini e Moretti, e su questo vorrei aggiungere qualcosa».
Prego.
«Sapendo come vanno le cose nel loro partito, il Pd, un partito pavido e per niente garantista, si sono sospese da sole. Siamo arrivati al passaggio di stampo orwelliano per cui l’accusato è costretto a rinunciare da sè alla propria presunzione di innocenza».
Il problema è che il Pd è al traino dei cinquestelle o c’è un’anima giustizialista al suo interno?
«Faccio una premessa: considero il Pd il partito che risponde più di tutti a logiche di democrazia interna. Nonostante questo, è percorso da tensioni illiberali, manettare e da una subordinazione alla magistratura che è ormai una tradizione trentennale, perché fu la magistratura che nel ’92-’93 diede l’illusione alla sinistra di poter andare al governo per via giudiziaria, visto che non ci era mai riuscita alle elezioni. La sinistra è andata al governo per via politica solo nel ’96 e nel 2006, entrambe le volte con coalizioni che si sono sgretolate nel giro di pochi anni».
Nel ’93 come oggi al centro era il tema dell’immunità, che veniva intesa allora – e in parte anche oggi – come impunità, come un “passarla liscia”. Cosa non va in questo modo di intendere l’immunità?
«Bisogna ripetere fino allo sfinimento che l’immunità non salva il singolo politico – si chiami Moretti, Gualmini o Salis – ma salva un ruolo istituzionale, quello del parlamentare che è stato eletto. L’immunità parlamentare protegge la volontà popolare. La cosa incredibile è che il popolo odia e schifa una guarentigia fatta a tutela del popolo stesso. E’ un cortocircuito infinito».
Là dove non viene applicato il principio dell’immunità cosa succede?
«Lo vediamo in Italia, quando presidenti di regione o sindaci vengono arrestati. In quei casi la magistratura ha il potere di sovvertire il volere popolare che si concretizza nell’elezione. Come è possibile che un magistrato possa sovvertire il più sacro dei processi democratici? Questo è possibile solo di fronte a una democrazia profondamente malata».
È una malattia che nasce con Tangentopoli?
«In quegli anni c’è un’inchiesta che porta la magistratura ad essere la grande “salvatrice” del Paese. Ma la crisi della democrazia viene da lontano, era evidente anche negli anni ’70. Potremmo dire che la democrazia è sempre in discussione, ma ci sono momenti in cui si mette in discussione con modi illiberali. Negli anni ’90 si è istituita questa sproporzione tra potere politico e giudiziario che non si è mai risolta e che anzi abbiamo esportato».
Ci sono analogie tra quella stagione e il presente?
«Certamente oggi la magistratura non gode dell’idolatria di ieri. Per assurdo, però, mentre allora c’era qualcuno che protestava, oggi è diventato normale che ci siano dimissioni che seguono ad inchieste, carcerazioni preventive ecc. Allora c’erano almeno grandi avvocati come Pecorella, pochi battaglieri colti e capaci. Oggi non c’è più neanche la possibilità di dibattere».
Su questo la politica ha delle responsabilità?
«Sì, ad esempio il dibattito sulla riforma della giustizia è viziato da un pressapochismo infinito. Ma ha responsabilità enormi anche il giornalismo, che sta seguendo esattamente la stessa parabola della politica: è sempre più propagandistico, entra sempre meno nel merito e si è abituato al fatto che fare cronaca giudiziaria significa avere le carte delle procure».


















