La filosofa Adriana Cavarero analizza le radici profonde della violenza di genere e del fenomeno dei femminicidi
Campagne di sensibilizzazione, proposte educative per i giovani, condanne unanimi di soprusi e violenze. Eppure, la tragica conta dei femminicidi non si ferma. Secondo alcuni conteggi quello di Pamela Genini è il quarantaduesimo dall’inizio dell’anno, secondo altri si arriva quasi a settanta. Adriana Cavarero è una filosofa femminista, professoressa onoraria dell’Università di Verona e autrice, insieme a Olivia Guaraldo, di Donna si nasce (Mondadori).
Riflettiamo insieme a lei sulle radici di questa violenza e sui modi per prevenirla. Professoressa, nel femminicidio di Milano vede elementi caratterizzanti o è uno dei troppi casi che riempiono le cronache di siti e giornali?
«Quello che è successo a Milano è la copia di quello che purtroppo succede in ogni dove. Ci sono dei maschi assassini di ogni età, di ogni ceto sociale e che molto raramente – in questo caso sembra di sì – hanno un passato da delinquenti. Il dato da cui partire è quello che aveva dichiarato l’assassino: “se mi lasci ti ammazzo”. È la convinzione che la donna sia proprietà dell’uomo e la proprietà non può sfuggire, non gode di volontà propria, è qualcosa di inerte e passivo. Ma ormai le donne sono tutt’altro che passive. Pamela Genini era una donna libera, aveva scelto la sua vita. E questo è insopportabile per la tradizione maschilista che intende ogni forma di eros come puro possesso dell’uomo sulla donna».
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Quando parla di tradizione maschilista si riferisce al patriarcato tanto evocato nel dibattito pubblico?
«Quella di “patriarcato” è una categoria socio-antropologica che indica una società in cui i maschi hanno un ruolo sovraordinato e privilegiato rispetto a quello delle donne. Dire “maschi – lista” o “patriarcale” quindi è la stessa cosa».
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Non pensa che i femminicidi, invece che i residui della cultura patriarcale, siano la reazione al suo declino?
«Sono l’una e l’altra cosa insieme. Questi uomini sognano il patriarcato forte e antico, quello in cui era indiscutibile che la donna fosse possesso dell’uomo. Una volta l’omicidio della moglie da parte del marito veniva considerato un semplice eccesso, non un assassinio vero e proprio. Il patriarcato di oggi è diverso: la donna libera mette in crisi quella vecchia e assoluta idea di patriarcato, che in questo senso è in crisi perché non rispetta più quel modello di potere dell’uomo e obbedienza della donna. Il maschio si sente derubato di ciò che è “giusto”, che sarebbe esattamente quel modello».
Per sensibilizzare su questi temi si fanno campagne o si cerca di “ortopedizzare” il linguaggio che adoperiamo, perché intriso di violenza e maschilismo. Sono tentativi utili?
«Va innanzitutto fatta una distinzione. L’intervento “ortopedico” sul linguaggio non viene dal femminismo ma dalla galassia Lgbt. Non è la stessa lotta, non è la mia lotta e non è la lotta delle femministe. Anche nei media c’è una confusione generale che porta a credere che le cosiddette “transfemministe” siano femministe. Ma non è così. Loro sono per i diritti trans, non per i diritti della donna».
E rispetto agli altri tentativi di prevenire la violenza cosa pensa?
«È giusto cercare di educare le nuove generazioni, anche se evidentemente sono tentativi insufficienti. Tuttavia, se non si facessero neanche questi tentativi, temo che i femminicidi sarebbero molti di più».
Proprio in questi giorni si è riacceso il dibattito sull’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole. Come la pensa?
«Nelle scuole andrebbe spiegato cos’è il patriarcato e perché c’è la violenza degli uomini contro le donne. Questo sarebbe molto utile. L’educazione sessuale c’era perfino quando andavo a scuola io, quindi non è una grande novità. Ma oggi può fare ben poco rispetto al facilissimo accesso che i giovani hanno alla pornografia. È quella l’educazione che loro subiscono. Cosa possono fare il professore o la maestra rispetto a questo?»
C’è un problema relativo al rapporto che abbiamo con il corpo, con il nostro e con quello degli altri?
«Il problema fondamentale è che oggi si vive in una bolla. Se un ragazzino di dodici anni si nutre di pornografia, sarà su questo modello che baserà la gestione del corpo nell’eros: un modello di possesso, di violenza, di corpo senz’anima. Il modello educativo non è più Anna Karenina. Ormai è solo attraverso la pornografia che si apprende come si comporta il corpo nell’atto sessuale e cos’è il corpo nell’eros»