Tra i manifestanti delle protesta per la pace a Gaza, l'”equipaggio di terra” della Flotilla che da giorni blocca l’Italia per farsi ascoltare
«Li volevate sdraiati con gli occhi fissi sul telefonino, oppure in stato di ipnosi davanti alle serie tv?». La signora Luisa, capelli bianchi raccolti in uno chignon ostinato, aspetta un autobus che non passerà mai, bloccato dal corteo. Sorride amara mentre due ragazzi in bici sfrecciano sventolando una bandiera palestinese. Dal traffico imbottigliato partono insulti e clacson. Ma c’è anche chi non sfila eppure approva, chi annuisce senza bisogno di slogan.
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Chi pensava che questi ventenni non provassero più nulla, anestetizzati dai social, immersi nella realtà virtuale, si deve ricredere. A Roma hanno sfilato in oltre centomila (70mila per la Questura), una fiumana di ragazzi, lavoratori, sindacati, bandiere e cartelli improvvisati. La Cgil e i Cobas, Landini e Schlein, i soliti leader al megafono. Certo. Ma sarebbe un errore fermarsi a loro. Perché se c’è stata folla è per un’altra spinta, più profonda e meno addomesticabile.
Si definiscono l’equipaggio di terra della Flotilla. «Non ci ha chiamati nessun partito, siamo scesi perché non potevamo più guardare senza fare niente – racconta Giulio, studente del Cavour occupato –. Per mesi immagini orrende ci hanno attraversato lo sguardo, e nessuno si muoveva. Qualcuno ha avuto il coraggio di prendere una barca e andare verso Gaza. Noi almeno possiamo camminare in una piazza».
VIDEO COMMENTO Le emozioni che riempiono le piazze e svuotano le urne
La differenza è tutta lì. Negli anni Settanta, nelle piazze contro la guerra in Vietnam, a dettare la linea erano i gruppi della sinistra extraparlamentare, i leader, le frange ideologiche. Oggi no. Non è Potere al Popolo a mobilitare decine di migliaia di studenti, né le rappresentanze sindacali di base. La spinta è autonoma, scomposta, spesso confusa ma reale. Una generazione che non si riconosce più nei partiti: non va a votare, non crede alla politica, però non si è del tutto assuefatta. L’encefalogramma non è piatto.

«Per me sono solo partiti che si ricordano di noi quando c’è da fare numero – dice Sara, liceo Mamiani –. Ma quando votiamo, loro non ci rappresentano. Allora scendiamo in piazza, anche se domani non andremo certo a mettere una croce su una scheda».
Il paradosso è che la loro forza nasce dove dovrebbe esserci la debolezza: dai social. Instagram, TikTok, non dal tg delle 20. «Le immagini di Gaza non le ho viste in tv, ma sul telefono – spiega Marco, 19 anni –. E lì non potevo girarmi dall’altra parte». L’informazione corre parallela: propaganda, controinformazione e disinformazione. Un bene e un rischio insieme. Una potenza che ha già dimostrato, negli Stati Uniti, come possa spingere Trump alla Casa Bianca.
C’è chi paragona questa ondata alla Flotilla del 2010. Allora lo scrittore Henning Mankell decise di salire a bordo di una nave diretta a Gaza. Erano i tempi dell’Intifada. Venne fermato, deportato in Svezia, e disse: «Non puoi chiamarti intellettuale se tutto quello che fai è trovare scuse per non agire». La stessa frase potrebbe campeggiare oggi sugli striscioni appesi ai balconi delle scuole occupate.
Non sono mancati i momenti duri: a Bologna scontri e lanci di oggetti contro la polizia, uova contro le camionette davanti al Ministero dei Trasporti a Roma. Episodi isolati che rischiano però di oscurare un movimento che resta in gran parte pacifico. «Non confondiamo qualche vandalo con quello che succede davvero – dice la signora Luisa –. Io sono qui solo a guardare, ma se avessi vent’anni sarei anch’io in corteo».

Il messaggio è duplice: da un lato un sentimento popolare che sfugge al controllo dei partiti e che si nutre di solidarietà spontanea; dall’altro un vuoto politico che nessuno sa riempire. I ragazzi di oggi non vogliono né padroni né capipopolo, ma allo stesso tempo non credono a istituzioni e leader. Una generazione senza partiti, senza urne, ma con piazze piene.
Lo si vede nei cartelli, nelle frasi scritte a mano. “Stop al genocidio”, “Palestina libera”, “Due popoli, due Stati”. Ci sarebbe stato bene anche un cartello contro Hamas, forse c’era ma noi non lo abbiamo visto. Non c’è il lessico della militanza classica, non ci sono i toni da comizio. C’è piuttosto un senso di colpa collettivo, l’angoscia di chi non vuole essere spettatore passivo di un massacro.
Se negli anni Settanta le piazze erano guidate dai gruppi ideologici, oggi la spinta nasce dal basso e viaggia a colpi di storie e reel. È un bene: perché nessuno ha il monopolio della coscienza civile. Ma è anche un rischio: perché senza radici, senza corpi intermedi, senza politica, un movimento rischia di dissolversi in un click.
Roma ieri, Bologna, Milano, Napoli oggi. Una marea che si muove a macchia d’olio. A volte bloccata: («gli agenti ci fermavano per chiederci i documenti, bastava indossare una kefiah…», a volte deviata dai capi sindacali, ma sempre pronta a ritornare. Forse questa è la vera notizia: non si sono assuefatti. Nonostante tutto, nonostante la disillusione, nonostante la sfiducia, quei ragazzi non sono sdraiati. E il traffico romano, nel frattempo, resta fermo. La signora Luisa scuote la testa: «Meglio così che in apnea davanti a una playstation…». E almeno su questo la Meloni sarebbe d’accordo.