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Risorse, équipe e prevenzione: la sanità che serve a un Paese che invecchia

Nel 2050 l’Italia sarà un Paese più anziano e più fragile, come conferma la stima del programma di riforma della sanità pubblica immaginato dal Forum delle Società Scientifiche dei Clinici Ospedalieri e Universitari Italiani (Fo.Ssc), che chiede al Governo un intervento strutturale, con provvedimenti urgenti per salvare il carattere universalistico del servizio sanitario. Le persone con più di 64 anni cresceranno di oltre un terzo rispetto a oggi, mentre la popolazione complessiva diminuirà per effetto del calo delle nascite. Senza un cambio di rotta il sistema attuale non reggerà l’urto di cronicità in aumento e risorse in calo. È una fotografia accompagnata da criticità note – sottofinanziamento, carenza di personale, pronto soccorso affollati, liste d’attesa interminabili, episodi di violenza contro gli operatori – e da un dato strutturale spesso trascurato: la frammentazione delle infrastrutture e dei dati tra ospedali, ambulatori e medicina di base, che rende difficile perfino parlare la stessa lingua tra reparti e territori. Per Fo.SSc non bastano “interventi tampone”: serve una riforma sistemica guidata da tre capisaldi: continuità assistenziale, centralità del paziente, efficienza organizzativa. Accompagnati da una spinta alla sanità digitale e all’intelligenza artificiale, a partire da un’unica piattaforma nazionale dei dati.

L’effetto della disconnessione si vede già oggi in gesti banali come ripetere un esame fatto altrove. La “ridondanza diagnostica” costa, e non solo in tempo: parliamo di circa tre miliardi e mezzo di euro l’anno per la spesa dovuta alla duplicazione di indagini causate dalla mobilità regionale, quando chi cura non riesce ad accedere ai referti già disponibili. Nel 2022, nonostante circa due miliardi spesi in sanità digitale per collegare tra loro le realtà regionali, meno della metà delle strutture dichiarava di avere un sistema elettronico davvero operativo in tutti i dipartimenti.

Da qui la prima leva del piano: rimettere in equilibrio l’ospedale. Aumenti di posti letto, attualmente circa la metà rispetto alla media europea, per alleggerire pronto soccorso e terapie intensive; revisione dei tetti di spesa che bloccano reparti e tecnologie; aggiornamento dei Drg, i raggruppamenti omogenei di diagnosi, spostando il baricentro dagli atti agli esiti, cioè a come sta il paziente dopo le cure. Ma soprattutto persone: occorrono assunzioni straordinarie in tempi brevi, per immettere almeno 10mila nuovi specialisti e 20mila infermieri. C’è da colmare un vuoto quantificato in 65mila infermieri mancanti, oltre a migliaia di altre figure tra tecnici di laboratorio, fisioterapisti, ostetriche e operatori sociosanitari. Bisogna invertire l’esodo verso l’estero con contratti competitivi e carriere chiare, e riorientare la formazione verso specialità oggi “neglette”, dall’emergenza-urgenza all’anatomia patologica.

La seconda leva sposta lo sguardo fuori dalle mura ospedaliere, dove si gioca la partita della cronicità. L’integrazione tra ospedale e territorio è il passaggio obbligato per dare concretezza alla medicina di prossimità. Le Case di Comunità, di cui si parla approfonditamente in un altro articolo su questo numero, restano nell’orizzonte, ma con realismo: si potranno avviare dove il personale non verrà sottratto a reparti già in sofferenza. Il ruolo dei medici di medicina generale viene ripensato come primo accesso al servizio sanitario, con un rapporto convenzionale che preveda almeno diciotto ore settimanali di presenza nelle Case, circondati da un team con specialisti ambulatoriali interni e infermieri, per accelerare diagnosi e presa in carico dei pazienti cronici che non hanno bisogno di ricovero. La telemedicina, in questo quadro, non è un gadget ma la spina dorsale che porta il monitoraggio a domicilio e riduce spostamenti e attese.

C’è poi il capitolo, spesso spinoso, dei farmaci innovativi. Oggi l’accesso in Italia arriva tardi: l’iter di approvazione nazionale supera i cinquecento giorni, un tempo che vale il decimo posto in Europa. La proposta è netta: ridurre drasticamente i tempi dell’Aifa, abolire i prontuari regionali che aggiungono ritardi e disuguaglianze, e istituire canali di “accesso precoce” per i medicinali con impatto clinico rilevante. Come? Consentendo l’immissione, subito dopo il via libera europeo, a un prezzo iniziale concordato e più basso, con un conguaglio successivo basato sui risultati del mondo reale. Il tutto accompagnato da investimenti nella medicina di precisione e nella capacità industriale – in particolare sui farmaci biologici – e da controlli rigorosi sulla qualità della ricerca. È una visione che lega innovazione e accountability: velocità sì, ma misurata e verificabile.

Per quanto riguarda la salute mentale, tema cresciuto nell’agenda pubblica durante e dopo la pandemia, l’idea è un Piano nazionale coordinato da una cabina di regia presso l’Istituto Superiore di Sanità, capace di armonizzare prevenzione, cura e riabilitazione, con un rafforzamento specifico della neuropsichiatria infantile: più strutture e più professionisti, e campagne per scalfire stigma e pregiudizi. È un terreno dove l’integrazione con scuola e comunità fa la differenza, e dove il capitale umano è fondamentale.

Infine, la prevenzione, oggi gravemente sottofinanziata e male organizzata. Tradurre l’ambizione in pratica significa politiche sui fattori che incidono sulla salute – fumo, alcol, obesità, sedentarietà – e alleanze con scuola, università e sport. Ma anche diagnosi precoce dove serve, introducendo altri screening oltre quelli già noti: per lo stomaco, il polmone e la prostata. L’obiettivo, oggi fuori portata, è di arrivare al 90% di adesione, risparmiando sofferenza e risorse negli anni.

In controluce la necessità di una regia: adottare modelli organizzativi a rete, come l’hub & spoke per oncologia, cardiovascolare e neurologia, con centri di eccellenza che concentrano le competenze e strutture collegate che garantiscono prossimità e continuità. È un modo per fare di più senza moltiplicare l’uguale, distribuendo funzioni e tecnologie in base alle dotazioni reali. E soprattutto è un invito a misurare: esiti, tempi, accessi, qualità dei dati. Perché oggi la risorsa scarsa, oltre ai professionisti, è la capacità di governare un sistema complesso con informazioni affidabili.

Questa proposta non si limita a denunciare ma tenta un percorso, dall’ospedale alle case, dai farmaci alla salute mentale, dalla prevenzione ai dati. È un’agenda che richiede risorse e scelte politiche, certo, ma chiede anche una cultura meno frammentata e più orientata al risultato. Non quante prestazioni facciamo, ma come stanno le persone dopo le cure.
*Coordinatore Fo.SSc. – Forum delle Società Scientifiche dei Clinici Ospedalieri e Universitari Italiani

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