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Il Circeo ci ha svegliato cinquant’anni fa ma non ci ha guarito

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C’era una volta l’Italia che si credeva innocente. Poi, nella notte tra il 29 e il 30 settembre 1975 arrivò il Circeo. Due ragazze, Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, accettano l’invito di tre giovani della “Roma bene”. In quella villa a Punta Rossa, sul promontorio del Circeo, si spalanca l’inferno: 36 ore di violenze inaudite, sevizie, torture. Rosaria non ne uscirà viva. Donatella si salverà fingendosi morta. sarà lei a raccontare l’orrore vissuto. La foto che la ritrae appena rinvenuta nel portabagagli della macchina di uno degli aguzzini – andato nel frattempo a cenare tranquillamente con i genitori – lacera e piena di sangue, accanto al cadavere dell’amica, è difficile da guardare senza chiudere gli occhi ancora oggi, che di orrori siamo circondati abitualmente.

Donatella non è uscita mai davvero da quel bagagliaio. Il suo corpo si è ammalato, la sua mente è rimasta lì. È morta nel 2005, a 47 anni, consumata dal trauma e dalla memoria. Sarà la sua voce, tremante e ferita, a raccontare l’orrore con coraggio. E sarà la sua sopravvivenza, lunga e straziante, a gridare verità che l’Italia non voleva sentire. A cominciare dall’estrazione sociale dei colpevoli. Angelo Izzo, Gianni Guido, Andrea Ghira. Figli di famiglie influenti, benestanti. Frequentatori di ambienti neofascisti. Vestiti bene, sicuri di sé, cresciuti in un’educazione che legittimava la violenza, il dominio, il possesso. Non sono mostri “alieni”, sono mostri sociali, generati da un patriarcato feroce e impunito.

La giustizia non fu con la “g” maiuscola in quell’occasione. Ghira fuggì in Spagna e lì morì, ufficialmente di overdose. Guido evase due volte, una addirittura in pieno giorno, prima di essere arrestato all’estero. Izzo, condannato all’ergastolo, ottenne permessi premio – e durante uno di questi, nel 2005, uccise di nuovo: madre e figlia, a Ferrazzano. Oggi tenta ancora di accreditarsi come un “pentito” nell’area dell’estrema destra, nonostante le sue “rivelazioni” si siano rivelate più volte infondate.

Il processo fece scalpore. E fu una delle poche volte in cui l’esposizione mediatica fu utile: il caso scosse l’opinione pubblica, generò indignazione, accese un dibattito sul ruolo delle donne, sulla violenza, sulla legge. Da lì in poi niente fu più come prima. Le migliaia di domande scabrose dei difensori degli imputati, le stesse che oggi colpiscono migliaia di donne stuprate nelle aule di tribunale per dimostrarne la consensualità alle violenze subite, indignarono anche l’italietta “benpensante” e moralista di quegli anni.

Da quel buio nacque una consapevolezza: la violenza sessuale non era più solo “scandalo privato”, ma fatto politico, sociale, collettivo. Le donne cominciarono a parlare, a denunciare, a organizzarsi. Anche grazie alla pressione dei movimenti femministi la legge, lenta e stanca, iniziò a rincorrere la realtà. Ma sappiamo bene che ancora oggi è insufficiente a tutelare le vittime di violenza. Il Circeo ci ha insegnato a vedere, ma non ci ha insegnato a intervenire. Sappiamo tutto, abbiamo visto tutto, abbiamo letto tutto. Ma continuiamo a non fare abbastanza, finché una storia come quella di Donatella e Rosaria ci costringe di nuovo a guardarci allo specchio. E ogni volta ci stupiamo. Ogni volta sembriamo nuovi a quell’orrore antico. Come se fosse sempre la prima volta. Come se non sapessimo già tutto da quel giorno.

Oggi che la parola “femminicidio” è diventata di uso quotidiano, il rischio è pensare di avere capito. Di essere andati oltre. Ma il Circeo non è un ricordo: è un codice sorgente. Sta lì, a dirci che non serve un’ideologia per uccidere una donna: basta il senso d’impunità. Sta lì a ricordarci che i carnefici vengono dal margine della società come dal centro. E che la violenza non è un’eccezione: è una funzione. Programmata, insegnata, premiata. Il Circeo non ci chiede soltanto empatia. Ci chiede lucidità. E strategia. Perché la domanda vera, cinquant’anni dopo, non è “come è stato possibile?”, ma chi lo sta permettendo ancora adesso.

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