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Gen. Governale: «Garlasco? Guai a innamorarsi di una pista d’indagine»

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«Negli anni ’70 Leonardo Sciascia scrive Il Contesto. Ad un certo punto un ispettore chiede ad un altro: “tu che opinione hai su questo caso?” e l’ispettore Rogas risponde: “caro collega, non ho opinioni, ho solo criteri. Se avessi opinioni cambierei mestiere” Questi sono i princìpi base della nostra deontologia». Il Generale Giuseppe Governale, già comandante del ROS e direttore della direzione investigativa antimafia, cita l’autore a cui lo scorso anno ha dedicato un libro e che dice aver sempre orientato la sua attività investigativa.

Generale, alla luce dei recenti sviluppi crede che nel caso di Garlasco quei principi deontologici indicati da Sciascia sono stati rispettati?

«L’episodio di queste ultime ore andrà valutato in tutte le sue circostanze. Il caso di Garlasco è però emblematico. Il problema è che probabilmente quando sono state iniziate le indagini si è partiti con una pista di cui ci si è innamorati. Citando di nuovo Sciascia, si è guardato all’opinione. Quando ci si innamora troppo di una pista investigativa è poi difficile disamorarsene. Non sei più tu a seguirla, ma lei a condurti. È come quando si porta un cane al guinzaglio: non devi farti guidare dal cane, ma devi essere sempre in grado di correggerne il percorso. Se invece si decide di percorrere un’indagine senza avere le idee chiare si finisce per percorrerla ad ogni costo. Si finisce per farsi condurre dal cane. E gli effetti possono essere aberranti».

Il tema è anche quello di un ammasso di materiale inquisitorio da cui di volta in volta si ricavano e si assemblano solo alcuni elementi.

«Il materiale raccolto è enorme. Si tratta di milioni e milioni di bit informativi. Ma se da questo calderone si estraggono solo alcuni bit, il rischio è quello di piegarli ovviamente anche senza volerlo al ragionamento che ci siamo fatti in testa. La conclusione di un’indagine dovrebbe conseguire, invece, soli da un ragionamento di tipo deduttivo».

Se invece si persegue con ostinazione una sola linea inquisitoria viene meno il metodo deduttivo. Da cosa viene sostituito?

«Dal metodo induttivo: io penso che tizio sia il colpevole e tendo far combaciare tutti gli elementi che mi portano indiscutibilmente a un determinato risultato. Questo viene fatto inconsciamente, senza dolo. Faccio un esempio militare: alla scuola di guerra ci insegnavano a valutare tutte le possibili azioni del nemico. È necessario confrontare queste possibili azioni con gli elementi che conosciamo, ma ci si muove sempre nell’ambito delle probabilità. A maggior ragione nell’ambito delle investigazioni bisogna essere molto cauti, perché è in gioco è la libertà delle persone».

Nel concreto a che cosa è dovuta la tendenza a sostituire l’induzione alla deduzione?

«Alla natura umana. Che però finché possibile va messa da parte, perché è meglio non risolvere un caso piuttosto che finire per individuare un innocente come colpevole».

È solo natura umana? Non ci sono storture intrinseche alla prassi inquisitoria?

«In teoria ci possono essere delle storture nell’approccio alle indagini, ma credo che l’elemento fondamentale rimanga una tendenza naturale. Se parliamo del caso di Garlasco parliamo di un caso di omicidio, cioè di un caso in cui è in gioco la responsabilità personale. E sopratutto in questi casi è necessario muoversi con i piedi di piombo, perché la responsabilità personale si lega alla privazione della libertà personale, che è un bene garantito dalla Costituzione».

Cosa non va nell’uso che è stato fatto delle intercettazioni?

«Le intercettazioni telefoniche sono uno strumento ordinario previsto dalla legge, ma vanno innanzitutto ben esaminate. Devono cioè essere inserite in un contesto generale e valutate in ragione dell’inflessione lessicale, del contesto, dell’ambito in cui viene detto quello che viene detto. Non possono essere soltanto lette. Quando sei al telefono ci sono circostanze ambientali che possono portarti a dire delle cose che in altri ambiti non avresti detto. Per queste ragioni non bisogna lasciarsi andare a valutazioni affrettate. Su questo abbiamo un caso che ha fatto scuola, che non riguarda direttamente le intercettazioni, ma il modo di affrontare le indagini».

Quale caso?

«Enzo Tortora venne arrestato perché in taccuino venne trovata la parola “Tortona” affiancata da un numero di telefono e quella parola venne scambiata per “Tortora”. E siccome un pentito aveva dato indicazioni su Tortora, questi venne arrestato senza che fu fatta alcuna verifica».

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