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Caso Almasri, ecco la memoria difensiva di Nordio, Piantedosi e Mantovano

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Un impianto accusatorio segnato dal «pregiudizio», ma soprattutto presunte «anomalie» e «violazioni» dei giudici che renderebbero «irricevibile» e addirittura nullo l’atto del Tribunale dei ministri. Il Guardasigilli Carlo Nordio, il titolare del Viminale Matteo Piantedosi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano passano al contrattacco sul caso Almasri: in una memoria di 23 pagine oggi al vaglio della Giunta per le autorizzazioni della Camera, i vertici del governo rendono la loro versione dei fatti sulla vicenda del generale libico arrestato a Torino a gennaio scorso e poi rimpatriato, affidandosi all’avvocata Giulia Bongiorno.

I tre esponenti dell’esecutivo sono accusati, a seconda delle posizioni, di omissione di atti ufficio, favoreggiamento e peculato. Ma nel documento si ribadisce sia in punta di diritto che sul piano dell’azione politica, la legittimità del loro operato: avrebbero agito per la «tutela di un interesse dello stato e costituzionalmente rilevante» e il «perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio delle funzioni di governo».

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Nel ripercorrere le tappe della vicenda la memoria smonta ogni accusa: tutte le decisioni prese in quei giorni, dalla mancata convalida dell’arresto all’espulsione, fino al volo di Stato, sono atti politici assunti per proteggere cittadini italiani e interessi strategici dello Stato. Si inizia dai rilievi formali: il Tribunale dei ministri avrebbe deciso fuori tempo massimo sulla richiesta di autorizzazione a procedere, che è di 90 giorni, prorogabili a 150. La decisione è invece arrivata dopo oltre sei mesi.

C’è poi un passaggio sulla questione del rispetto del diritto di difesa e del “contraddittorio tra le parti, davanti ad un giudice terzo ed imparziale”: nel caso in esame, si legge, «il contraddittorio è semplicemente mancato», e si ricorda che Mantovano aveva chiesto di essere ascoltato, ma la sua audizione è stata respinta.

Al contempo, al procuratore della Repubblica di Roma sono stati chiesti più pareri, mentre i difensori hanno avuto accesso al fascicolo solo a ridosso della decisione. Non è tutto: si è assistito a due «inammissibili fughe di notizie», riscontrate dal Tribunale, il 12 febbraio e il 10 luglio. Così gli atti del procedimento «negati alla difesa», è l’accusa, sono stati invece pubblicati sulla stampa. E ancora, si contesta l’uso delle informative rese in Parlamento il 5 febbraio dagli esponenti di Governo: definite dal Tribunale «versione difensiva», sono state utilizzate contro i tre indagati. Ecco perché per la difesa si tratta di atti inutilizzabili, perché resi senza assistenza legale.

I magistrati avrebbero inoltre, secondo la difesa dei ministri, mostrato pregiudizio giudicando inattendibili delle testimonianze istituzionali, per di più senza motivazioni solide, come quelle del capo della polizia. «Lo screditamento dei testimoni – si legge nell’atto – ritenuti non in linea con la tesi accusatoria. Si tratti del Capo della polizia, come del Direttore del Dipartimento informazioni e sicurezza, o del Consigliere diplomatico del ministro della Giustizia – figure autorevoli, servitori dello Stato da decenni –, sono tutti marchiati di inattendibilità. È uno screditamento grave in sé, e ancora di più nel momento in cui – come emerge dalla lettura della domanda – avviene con affermazioni apodittiche e non motivate».

Come le dichiarazioni del consigliere di Stato Luigi Birritteri, che aveva rilevato l’assenza di una delega della Corte penale internazionale al Dag-Dipartimento affari di giustizia e definito «irrituale» l’arresto, a cui non viene dato alcun peso o valore. Stesso discorso per la definizione di «mendaci» rivolta a Nordio e al capo di gabinetto Giusi Bartolozzi, messa anche lei sotto inchiesta: un’accusa generica, si fa notare, senza indicare quali dichiarazioni sarebbero false.

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Dalle osservazioni tecniche si passa poi alla valutazione più politica della vicenda, con il contesto internazionale in primo piano. Tra il 19 e il 20 gennaio, secondo le informazioni dell’Aise, a Tripoli c’era fermento. Nella memoria del 30 luglio scorso la stessa Bongiorno aveva sostenuto la tesi dello stato di necessità come circostanza oggettiva che, pur in presenza di un fatto di reato, esclude la punibilità.

Almasri, arrestato il 19 gennaio scorso con l’accusa di traffico di esseri umani e torture, è stato liberato dal governo italiano e rimandato in Libia con un volo di Stato, perché c’era un interesse da tutelare: la sicurezza degli italiani nel paese africano. Per i tre esponenti dell’esecutivo, l’intera vicenda rientra nella clausola dell’articolo 9, comma 3, della legge costituzionale 1/1989: atti compiuti nell’interesse dello Stato, costituzionalmente rilevante e di preminente interesse pubblico.

Infine viene citata la norma delle Nazioni Unite che considera non punibili le violazioni degli accordi internazionali quando sono «l’unico mezzo per lo Stato per salvaguardare un interesse essenziale a fronte di un pericolo grave e imminente, e non pregiudicano seriamente un interesse essenziale della comunità internazionale nel suo insieme». I giudici non ne avrebbero tenuto conto, ma la difesa insiste e la conclusione della memoria va dritta al punto: la Giunta deve proporre alla Camera il diniego dell’autorizzazione a procedere.

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