«Le cronache sull’inchiesta urbanistica di Milano sono la plastica applicazione del processo mediatico. Due arresti annullati, che sconfessano le tesi della Procura non interessano e non fanno quasi notizia. La notizia sono le chat depositate da quegli stessi Pm le cui tesi sono state smontate. Giornali che sbavano per riportare le conversazioni estrapolate autonomamente dalla procura, senza vaglio del Gip, giudicate rilevanti dall’accusa senza contraddittorio. La presunzione di innocenza non esiste»: Enrico Costa, membro della Camera dei Deputati ed esponente di Forza Italia, ha fortemente sostenuto l’emendamento che, nel 2024, è intervenuto nel codice di procedura penale ed ha esteso il divieto di pubblicazione alle ordinanze cautelari.
Lo scopo di quella norma era di rimediare all’utilizzo acritico e colpevolista che veniva fatto dalla stampa nelle trasposizioni del contenuto di tali provvedimenti. È cambiato qualcosa dalla sua entrata in vigore?
«Io continuo a leggere sui giornali stralci testuali delle ordinanze cautelari. Ma per un inquadramento generale della questione, vorrei tornare indietro. Il tema delle ordinanze di custodia cautelare era, ai tempi dell’intervento normativo a cui faceva riferimento nella domanda, l’unica area della fase delle indagini preliminari in cui l’art. 114 c.p.p. permetteva la pubblicazione letterale e testuale di tutto il provvedimento. L’art. 114 c.p.p. ha una regola: quando gli atti sono segreti non possono essere minimamente pubblicati. Diversamente, quando cade il segreto (perché sono giunti alle parti, o sono stati depositati al tribunale del Riesame per esempio), prima della conclusione delle indagini preliminari o del termine dell’udienza preliminare, gli atti possono essere pubblicati soltanto nel contenuto, quindi unicamente con una sintesi. Ecco, il mio emendamento ha disciplinato l’ordinanza cautelare proprio al pari di questi ultimi atti. Ora, qual è il punto? Soffermiamoci su quanto sta accadendo in questi giorni con l’inchiesta di Milano, e ci accorgeremmo che vengono pubblicate, pur parzialmente, chat e intercettazioni. Questo non è permesso dall’art. 114 c.p.p. ed è un reato punito dall’art. 648 c.p., che dovrebbe essere perseguito penalmente».
E così avviene?
«Sono convinto che le procure non facciano questo, così alimentando e legittimando il marketing giudiziario. Entra in gioco una liason tra giornalisti e inquirenti che non dovrebbe esistere».
Al di là del mancato perseguimento penale, non crede che le sanzioni previste abbiano una scarsa capacità dissuasiva per chi viola il divieto di pubblicazione?
«Le sanzioni sono risibili. Si risolve tutto con un’oblazione di 100 euro. È comodo fare l’obiezione di coscienza quando ci sono sanzioni minime. Noi come Parlamento avevamo chiesto al Governo d’intervenire con delle sanzioni più adeguate, ma non l’abbiamo ottenuto, e sicuramente è un punto su cui dovremo tornare. Oggi c’è una violazione dell’art. 114 c.p.p. così diffusa che, a rigore di logica, dovrebbero esserci procedimenti penali ad ogni pie’ sospinto. E nel frattempo, tutto ciò alimenta il processo mediatico, che sui giornali vive soltanto negli atti di accusa, poiché non contempla la difesa né tantomeno guarda l’esito finale. Gli atti del pm, in altre parole, finiscono per consolidarsi impropriamente come sentenza definitiva nellamemoria della collettività».
Ieri, a Milano, il Tribunale del Riesame ha annullato due misure cautelari contro altrettanti indagati. Un colpo significativo a discapito della tesi accusatoria. Eppure, la notizia è stata appannata dalla tempestiva pubblicazione di chat (fino a quel momento sconosciute) tra alcuni indagati, al fine di gettare nuove ombre che, però, non hanno alcuna valenza probatoria. Non è un’altra gravissima violazione?
«Qui dobbiamo renderci conto anche di un aspetto normativo. Se un pm vuole acquisire una chat e farne finire il contenuto sui giornali, basta che decida di sequestrare il cellulare, selezionare quali contenuti estrarre (in un campo in cui dovrebbero valere il principio di proporzionalità e necessità) e infine depositarli agli atti, senza bisogno di autorizzazione del Gip. Si tratta di una disciplina che viola la direttiva europea, tanto che la Corte di Giustizia ha stabilito che, in tali casi, è necessario il nulla osta del Giudice. E nonostante ciò, nessuno si pone il problema. Eppure, c’è un principio di riservatezza che deve essere garantito. Perciò, io chiedo che ci sia il riserbo istruttorio, perché quando poi questi contenuti vengono pubblicati esiste un grave danno reputazionale e non c’è nemmeno l’intenzione dei giornali di ripararlo. Oggi su Twitter ho fatto un gioco, confrontando le prime pagine di Repubblica del 1 agosto e del 13 agosto. Nella prima, la notizia degli arresti per l’inchiesta di Milano aveva il titolo centrale. Nella seconda, l’annullamento delle custodie cautelari si trova in una colonnina. È necessario fare un’ulteriore riflessione, di respiro più ampio, a partire da quanto sta accadendo a Milano, e che riguarda strettamente la magistratura».
La faccia pure.
«Se cade il castello delle accuse, bisogna domandarsi: ci sarà un asterisco sulla valutazione di professionalità del giudice delle indagini preliminari che ha sentito, prima di applicare la custodia cautelare, gli indagati ora liberati? E del magistrato inquirente che ha firmato le richieste per queste misure? E se l’inchiesta sarà un flop? In Italia le valutazioni di professionalità dei magistrati superano il 99%. Glielo dico io: non ci sarà nessun asterisco. E su questo la politica non può più dividersi, ma deve assumersi le proprie responsabilità».