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Giustizia, gli arresti di Milano alla prova di un perché

Domani il Tribunale del Riesame di Milano inizia a valutare i ricorsi contro i sei arresti disposti dal gip nell’inchiesta sull’urbanistica. C’è, all’esame dei giudici, un dettaglio decisivo, ancorché sottovalutato nel dibattito pubblico. Riguarda il fatto che le ordinanze di custodia, cinque ai domiciliari e una in carcere, sono state richieste dalla procura e autorizzate dal gip nonostante la maggior parte degli indagati, e tra questi l’assessore Giancarlo Tancredi e il costruttore Manfredi Catella, si fossero dimessi.

Il presupposto su cui gli arresti sono stati disposti è il pericolo di reiterazione del reato. In che modo ciò possa avvenire, avendo dismesso i poteri e le cariche che lo avrebbero consentito, è un mistero per il cittadino. Ma non è questo il punto. Perché la scienza giuridica ha percorsi talvolta più sottili della logica di senso comune.

La Cassazione ha sentenziato in questi anni che «il pericolo di reiterazione può sussistere anche nel caso in cui il pubblico agente risulti sospeso o dimesso dal servizio». Ciò avviene quando ci sono, non sospetti, non pregiudizi, ma circostanze di fatto che fanno pensare che l’assessore possa ripetere la condotta illecita anche nella sua nuova veste di soggetto estraneo all’amministrazione comunale.

Il giudice, dice la Cassazione, deve indicare queste circostanze di fatto o desumerle da precedenti specifici, e qui la Corte porta, a fini esplicativi, un esempio: il rischio di ripetere il reato – dice – sussiste se gli episodi corruttivi a lui imputati sono tanti, e se esistono diversi procedimenti penali contro di lui della stessa natura, da far pensare che esista una rete di relazioni illecite estese a diversi settori della pubblica amministrazione.

È il caso di Milano? Qui l’assessore si è dimesso in un dibattito drammatico in Consiglio comunale, in cui la scelta di uscire dall’amministrazione è stata annunciata come un gesto di testimonianza politica. Qui, ancora, tutti i soggetti che con l’assessore avrebbero cooperato nella corruzione hanno a loro volta cessato i loro incarichi nelle commissioni amministrative e nelle aziende presuntamente coinvolte nel reato. Qui, da ultimo, tutte le procedure urbanistiche contestate e viziate, secondo la procura, dall’accordo illecito, sono paralizzate da circa due anni, e gli atti amministrativi ad esse riferiti sono stati sequestrati, e così pure le relazioni tra i soggetti coinvolti sono state per così dire fotografate dalle intercettazioni e dalle testimonianze acquisite all’inchiesta.

È in questo punto della storia che si colloca la decisione del gip di confermare gli arresti. Essa poggia su quella che nel lessico giuridico si chiama presunzione, e vale la pena di citarla con le parole del magistrato: «Sussiste il concreto e attuale pericolo – anzi, la pressoché certezza – che gli indagati, laddove non sottoposti a misura cautelare, continuino ad alimentare e lucrare sul sistema illecito da loro promosso e cavalcato, commettendo reati della medesima specie di quelli per cui si procede».

C’è una città paralizzata da due anni di sequestri, un Comune assediato dall’inchiesta e sull’orlo della crisi, le dimissioni di tutti i soggetti coinvolti dagli incarichi, la morbosa attenzione dei media su Milano, e il gip ritiene non probabile, ma certo che, senza gli arresti, Tancredi e compagni domattina continuerebbero a commettere reati. E questa certezza non deriva, come vorrebbe la Cassazione, da nessuna circostanza di fatto concreta o attuale. Come per esempio accadrebbe se agli atti dell’inchiesta ci fosse un solo riscontro attuale di una qualche relazione di complicità, o pure solo meramente difensiva, tra gli indagati.

La certezza deriva piuttosto da quello che il gip definisce «un sistema di corruttela e di commistione tra interessi pubblici e privati», anche questo non fondato su circostanze di fatto, ma desunto come dato interpretativo dal contesto ambientale. Nei prossimi giorni il Tribunale del Riesame si pronuncerà sulle istanze di scarcerazione proposte dalla difesa degli indagati. Se la risposta fosse negativa, potrebbe essere la Cassazione a dire l’ultima parola.

Chi scrive ha consultato tre diversi giuristi di indiscussa competenza e autorevolezza ricevendo il medesimo e riservato giudizio prognostico: l’orientamento della Cassazione – dicono all’unisono – è univoco: le dimissioni dalla carica non escludono gli arresti solo se si provano le circostanze di fatto indicate in diverse sentenze e assenti nell’indagine di Milano.

Allora ci sia consentito di scommettere sull’esito del giudizio che verrà nel senso contrario in cui ha scommesso il gip. E di chiedergli per quale motivo, avendo studiato come e più di noi la casistica giurisprudenziale, e quindi potendo valutare quanto alta sia la probabilità che la Cassazione, e prima ancora il Riesame, annullino il suo provvedimento, abbia ugualmente disposto gli arresti per tutti gli indagati dimissionari.

La risposta a questa domanda ci porta dritti al cuore della crisi della giustizia: un magistrato può adottare una custodia cautelare incongrua e indebita, torcendola alla funzione di pena preventiva, perché sa che, quand’anche la sua decisione fosse smentita dalle magistrature superiori, lui non né avrebbe alcuna responsabilità, né civile, né deontologica, né professionale.

Il fatto che egli possa pervicacemente inseguire un obiettivo processuale irraggiungibile, senza alcuna conseguenza, non è solo un assurdo logico, ma anche un assurdo democratico, perché consente che la sua indipendenza sia declinata in una scommessa, la cui forza autoritativa si scarica come un fulmine sulla fragilità dell’individuo imputato e del suo contesto, in questo caso politico.

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