Il caso Milano stritola e inghiotte non solo la politica, ma un modello di grande sviluppo edilizio che ora è paralizzato dalle inchieste della magistratura. Le lancette sembrano tornare indietro ai tempi di “Mani Pulite”, quando l’economia – e non solo – fu travolta inesorabilmente dal caso giudiziario. Gaetano Pecorella, avvocato, giurista, past president dell’Unione Camere Penali ed ex parlamentare, riaccende la pellicola su un film già visto. Non solo dal punto di vista degli effetti devastanti per la città all’ombra della Madunina, ma anche per riaccendere una luce sul buio piombato sul diritto di difesa, caduto sotto i colpi di un’ordinanza che senza troppe velature appare una sorta di pre-sentenza di condanna. Pecorella parlando di una inchiesta nata sotto l’ombrello dello scomparso abuso d’ufficio, torna poi a ribadire la necessità più che mai urgente della separazione delle carriere.
L’inchiesta sull’urbanistica appare come un anatema lanciato alla politica. Cosa sta succedendo a Milano?
«Sta succedendo quello che è accaduto, anche se in forma diversa e anche con elementi di accusa diversi, a suo tempo, con le cosiddette “Mani Pulite”. E cioè che la magistratura si impossessa di un ramo dell’economia, ci mette il naso dentro e trova sempre il modo di sostituirsi agli imprenditori e agli amministratori pubblici. Devo dire che “Mani Pulite” ha rovinato una parte dell’economia che ha fatto molta fatica a riprendersi. In questo caso succederà la stessa cosa perché, come tutti sappiamo, Milano è in una fase di grande sviluppo edilizio ma non solo, e adesso è tutto bloccato da questa inchiesta».
Nell’ordinanza del gip salta agli occhi il suo giudizio sulla strategia difensiva degli indagati negli interrogatori preventivi. Premettendo che è legittima e insindacabile si sottolinea che nessuno ha ammesso le proprie responsabilità e che questa è una scelta «sintomatica del fatto che nessuno abbia voluto prendere le distanze dal meccanismo che li trova, sostanzialmente, accomunati da interessi convergenti, sia sul piano economico, sia su quello politico. Che fine ha fatto il diritto di difesa?
«A suo tempo fu introdotta una norma nel nostro codice di procedura penale che prevede espressamente che non può essere causa di una misura cautelare il fatto che l’imputato non ammetta le proprie responsabilità. Vorrei vedere che fosse altrimenti! Il diritto di difesa consiste proprio nel potere di negare adducendo tutti gli elementi possibili. Peraltro da quello che ho potuto leggere, le accuse sono piuttosto vaghe e fumose: quando si parla di conflitto d’interessi, che di per sé non è un reato, o di abusi che sarebbero stati commessi. Ma penso che questa inchiesta sia nata sotto l’ombrello dell’abuso d’ufficio che è andato scomparendo e che ha dovuto trovare un altro tipo di reato che potesse sostituirlo. Come sempre, questo tipo di inchieste che hanno delle forti motivazioni politiche, di intromissione nelle scelte della politica e della pubblica amministrazione, finiscono poi per diventare uno scontro, talvolta tra due modi di concepire l’amministrazione pubblico-privata, altre volte un tentativo della magistratura di sostituirsi sia alle imprese che alla PA».
Nell’ordinanza, come in altri atti dell’inchiesta, emergono toni forti – come mercimonio della funzione pubblica – e come hanno sottolineato alcuni avvocati degli indagati si evince un giudizio quasi morale che appare come una pre sentenza. Cosa ne pensa?
«Anch’io ho notato per quello che ho potuto leggere degli atti del giudice e del pubblico ministero che sono più condanne morali che non elementi giuridici o non prove di corruzione. Da quello che si può conoscere dall’esterno, ricorre spesso questa sensazione della condanna di un sistema, ma quando poi si va a vedere le corruzioni, che consistono nella dazione di denaro o di utilità, vengono poi supportate da un linguaggio piuttosto forte che in un atto giudiziario non dovrebbe mai esistere. L’atto giudiziario deve descrivere i fatti, indicare le prove e valutare gli elementi di colpevolezza. Peraltro noto che questa inchiesta è nata tre anni fa. Se ci sono voluti tre anni per creare un provvedimento come quello degli arresti, vuol dire che non era poi così evidente questo sistema».
Chi è stato arrestato si era dimesso dai propri incarichi. Nonostante ciò per il giudice sussistono gli elementi per far presupporre la reiterazione del reato. Secondo lei c’è un abuso della custodia cautelare?
«Questo è un uso distorto della custodia cautelare: se il reato, come in questi casi, è un reato contro la pubblica amministrazione e quindi presuppone una carica amministrativa o anche di tipo imprenditoriale, e il soggetto si dimette, fa quello che già l’ordinamento prevede. Ci sono le misure interdittive invece di applicare il carcere – che poi in questo caso il carcere domiciliare lascerebbe grandi possibilità e disponibilità di contatti – e quindi la misura cautelare perde di significato nel momento in cui la carica che mi consentiva di commettere certi reati è stata da me rinunciata, o il giudice poteva anche con una misura interdittiva toglierla all’imputato. Quindi la misura cautelare torna ad avere la funzione di additare qualcuno come già colpevole prima ancora che venga fatto il processo. E ci troviamo di fronte al paradosso che si fa il processo per accertare la colpevolezza, ma prima che lo si faccia si dice già che qualcuno è colpevole».
Il caso Milano e quello che sta accadendo si interseca in modo emblematico con la battaglia sulla separazione delle carriere. Una coincidenza o l’ulteriore dimostrazione che occorre più che mai la figura di un giudice terzo?
«C’è un fatto obiettivo: la Procura della Repubblica oggi non sbaglia mai. Quello che chiede la Procura il giudice fa. Ora rispetto a piccole divergenze e differenze rispetto a ciò che aveva chiesto la Procura, il gip ha finito per appiattirsi sulla richiesta del pm. E questo mi pare un fenomeno inevitabile finché non c’è la separazione delle carriere perché il pubblico ministero altro non è che un magistrato così come il giudice. Hanno fatto gli stessi esami, la stessa carriera, al limite il pm poteva essere un giudice fino a qualche giorno prima o viceversa, ragion per cui è inevitabile che le parole di un difensore valgono quello che valgono, trattandosi di un privato che difende un altro privato, mentre il pm per il giudice è un funzionario pubblico. Non solo, è un giudice con la toga del pubblico ministero, quella toga dell’accusatore, perché altro non è che colui il quale potrebbe domani fare il giudice».