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Giubileo dei giovani, effetto Palestina sul grande altare dei Papaboys

Al Giubileo dei Giovani i ragazzi papaboys potrebbero non esser più solo fedeli festosi ma delle coscienze globali, e potrebbe spuntare anche qualche bandiera della Palestina

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A Roma, città eterna e palcoscenico del sacro, si prepara una nuova Pentecoste mediatica: il Giubileo dei Giovani, apoteosi dell’Anno Santo 2025. A Tor Vergata – quel prato epico dove nel 2000 Giovanni Paolo II chiamava “atleti di Dio” un milione di ragazzi e dove ora svetta l’incompiuta Vela di Calatrava – è tutto pronto per accogliere i Papaboys del terzo millennio. Solo che, stavolta, tra canti, veglie e selfie spirituali, si avverte un’aria più carica. Non solo di incenso.

La storia ha il vizio di bussare alle porte della liturgia quando meno te l’aspetti. E le parole del cardinale Pietro Parolin, pronunciate ieri con disarmante spontaneità durante il Giubileo degli Influencer, pesano come pietre sul mosaico già incrinato del Medioriente. Alla domanda su Macron e la proposta di riconoscimento dello Stato palestinese, la risposta è stata lapidaria, quasi romanesca: «Noi l’abbiamo già riconosciuto. Da mo’…come dite voi».  Frase rivolta appunto agli Influencer, preti e suore che con una mano sgranano il rosario e con l’altra smanettano sui social per annunciare il Vangelo. Rilanceranno le sue parole. Parolone non parolin, verrebbe da dire. 

La Chiesa sempre più attenta alla crisi di Gaza

Una frase così, se detta in un bar, susciterebbe un’alzata di spalle. Se detta dal Segretario di Stato della Santa Sede, un cardinale entrato nella cinquina dei papabili della Sistina, suona come un’aggiunta al Credo diplomatico vaticano: due Stati, due popoli, due autonomie. Una posizione che non cambia da decenni ma che, oggi, nella scia di Gaza devastata e della parrocchia della Sacra Famiglia colpita dai raid israeliani, acquista un tono più urgente. «Non possiamo fare indagini indipendenti – ammette Parolin – ma l’impressione è che certi errori si ripetano…».

Sarà un caso. Ma la prima pagina dell’Osservatore Romano sabato scorso ritraeva una donna palestinese con in braccio un bimbetto denutrito e un titolo deliberatamente provocatorio. «A Gaza nessuna carestia, vero?». Ed è qui che nasce il paradosso. A sei giorni dal clou, nei palazzi curiali e tra le questure – c’è chi teme che la grande veglia del 2 agosto a Tor Vergata possa trasformarsi in una manifestazione non richiesta, spontanea, quasi inevitabile: una liturgia parallela di solidarietà pro-Palestina. Da ProPapa a ProPal del resto è un attimo.

Le bandiere, si sa, hanno una teologia propria. Non servono permessi per sventolarle. E in uno spiazzo affollato da oltre mezzo milione di giovani di 146 Paesi, provenienti da un mondo sempre più polarizzato e assetato di giustizia, è ingenuo pensare che il conflitto israelo-palestinese non troverà eco. Soprattutto dopo che l’emissario del Papa ha già preso posizione, e non da oggi.

I Papaboys, la Palestina e il Giubileo, la posizione del Papa non lascia indifferenti i giovani

I Papaboys, quei giovani eredi di un carisma Woytiliano ormai transgenerazionale, si ritrovano in un tempo diverso. Non più solo fedeli festanti, ma anche coscienze globali. E se gridare «Giovanni Paolo II, noi ci siamo!» nel 2000 era un atto di gioia, nel 2025 un «Palestina libera» potrebbe suonare come un’esigenza morale. I giovani verranno divisi per catechesi linguistiche: sono arrivati in aereo, bus, nave, bicicletta, molti anche a piedi. Sono attesi piccoli gruppi anche dall’Ucraina e dalla Terra Santa. Per la Veglia del 2 agosto monsignor Fisichella si è sbilanciato: «Arriveremo al milione».

Compresi i ragazzi provenienti dalle aree dove i cristiani sono in netta minoranza. È il nuovo orizzonte della Chiesa targata Leone XIV, un pontefice giovane che piace ai giovani. Non a caso la prossima GMG si terrà ne 2027 a Seoul, in Corea. Il fatto nuovo sarà la partecipazione dei giovani americani. Negli Usa il Papa di Chicago ha accesso un nuovo fervore. La sua netta presa di posizione su Gaza, in contrapposizione con Trump, non lascerà indifferente queste nuove generazioni.

Ma non tutti, in alto loco, si sono spellati le mani per quelle parole. Anzi. A Palazzo Chigi si è fatta improvvisamente sera, e non solo per questioni di fuso orario. Il riconoscimento della Palestina da parte della Santa Sede, suona oggi – in piena escalation di tensioni internazionali e con una destra sovranista sempre più israelocentrica – come un inciampo nella liturgia dell’ordine atlantico. Giorgia Meloni, che della sintonia con l’asse Netanyahu-Orban fa quasi un sacramento geopolitico, ha accolto le dichiarazioni di Parolin con un silenzio che sa più di gelo che di diplomazia.

Il rischio per il governo Meloni

Il rischio per il governo è che a fare breccia tra i Papaboys non siano le parole d’ordine del patriottismo tricolore, ma quelle – più universali – della giustizia, della pace, della memoria storica. E dietro i silenzi, il timore che la sinistra – orfana di popolo ma non di simboli – possa trovare in questa ondata di giovani cattolici inquieti una sponda inattesa. Che i valori evangelici, spogliati dall’incenso istituzionale, si rivelino incompatibili con l’algoritmo della realpolitik Meloniana.       

Il palco è pronto, le torri audio pure. La protezione civile ha dispiegato uomini, nebulizzatori e vie di fuga come in un G8. Ma nessuno ha ancora trovato la via di fuga da quella tensione silenziosa che attraversa la Chiesa di Roma: come evitare che una veglia di preghiera diventi una veglia di protesta? E, in fondo, è poi così male? Parolin, uomo di equilibrio e cautela, ha risposto alle accuse russe di parzialità con il solito garbo: «Non credo che si possa accusare il Vaticano di non essere neutrale». Ma è una neutralità che non rinuncia alla verità. «Dire le cose come stanno», anche se scomode.

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