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Raffaele della Valle: «Non si uccida la presunzione di innocenza»

Raffaele della Valle

Parla l’avvocato che difese Enzo Tortora: «No alle invasioni di campo e ai giudizi morali dei Pm»

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«Dov’è il codice etico dei magistrati? Chi giudica se quel codice viene rispettato? Sono tematiche che non devono essere discusse da destra o da sinistra, ma dalle loro fondamenta». Parla senza peli sulla lingua Raffaele della Valle, avvocato penalista da più di sessant’anni e protagonista di alcune delle inchieste giudiziarie che più hanno segnato il nostro paese.

Avvocato, partiamo dall’inchiesta di Milano. Che idea si è fatto?

«Tratto molte volte di questo tema perché spesso difendo degli urbanisti. La materia è complessa perché non siamo di fronte a una fattispecie singola, come un delitto o una rapina, ma ad una congerie di atti amministrativi. La legislazione in tema di urbanistica è estremamente farraginosa e in ambito penale può sfuggire sia a noi avvocati che ai pm. Poi si aggiungono spesso, da parte dei pm, elementi di natura politica. Il giudizio che posso esprimere è però che c’è troppa enfasi intorno ai processi di una certa dimensione».

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Chi ne è responsabile? Solo la stampa?

«Non solo, perché i giornali danno le notizie che qualcuno passa loro. Il dramma che ormai caratterizza il processo penale è la violazione del segreto investigativo, le cui maglie vengono regolarmente perforate».

Enzo Tortora con l'avvocato Raffaele della Valle
Enzo Tortora con l’avvocato Raffaele della Valle

Da chi?

«Da coloro che hanno interesse a farlo. Mi domando però perché ci siano giornali più informati degli altri. Ma su questo non voglio aggiungere altro, se non che io ho fatto decine di denunce per violazione del segreto investigativo e non ho mai avuto la soddisfazione di vedere l’inizio delle indagini a riguardo. Inoltre chi detiene una notizia segreta deve rispondere quando quella notizia viene diffusa, come accade in qualsiasi altro campo».

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Rispetto all’inchiesta di Milano che atteggiamento dovremmo avere?

«Dovremmo fare quello che suggeriva Bentham: attendere per giudicare. Al processo Ilva ho assistito a qualcosa di sconcertante. Un mio cliente accusato di favoreggiamento è stato perseguitato per anni in base a un’intercettazione in cui un imprenditore che parlava con lui diceva: “datti da fare per inquinare gli atti”. È stata una fatica immane dimostrare che non diceva “inquinare” ma “impugnare”. Questo per dire quanto le intercettazioni – e le indagini che su esse si fondano – possano essere tutt’altro affidabili».

“Attendere per giudicare”, diceva. Però nel caso di Milano qualcosa già conosciamo, ad esempio parte del testo dell’ordinanza. L’uso di una certa aggettivazione per classificare gli indagati e la tendenza dei pm a esondare verso giudizi morali sono un problema?

«La lettura di questa richiesta lascia intendere che c’è sicuramente un alveus derelictus, cioè un’uscita dal binario tecnico-giuridico verso giudizi di cui un magistrato dovrebbe fare a meno, perché rischia di essere interpretato a livello politico. Il problema è che giudizi parziali che giustificano la richiesta di una misura virano verso giudizi definitivi. La richiesta di una misura dovrebbe limitarsi a esprimere la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e poi dire se c’è il pericolo di inquinamento delle prove, di fuga o di reiterazione del reato. Il binario è questo, ma spesso viene oltrepassato».

Perché avviene questo?

«Perché c’è una cultura della giurisdizione che vuole occupare la cultura della politica. Come dicevo, i magistrati hanno la tendenza ad “arricchire” il loro giudizio tecnico-penale e a farlo diventare giudizio definitivo. Dobbiamo fare tutti un passo indietro».

Anche la politica?

«Sì, anche perché molti usano il garantismo come una fisarmonica: lo aprono quando conviene e lo chiudono quando non conviene».

Nordio ha detto che senza la sua riforma gli indagati sarebbero già stati arrestati. E’ vero?

«Senza la legge Nordio del 2024 quella che oggi è una richiesta al Gip si sarebbe già tradotta nell’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare. È una prima parte di una riforma che raggiungerà l’optimum con la separazione delle carriere e con la garanzia dell’imputato».

Lei è stato l’avvocato di Enzo Tortora. Da quel caso abbiamo imparato qualcosa?

«Purtroppo no. Le modifiche in materia penale che ci sono state dall’83 a oggi sono state modifiche di forma e non di sostanza. La madre delle riforme che devono essere fatte è la separazione delle carriere. La Costituzione prevede che ci sia una difesa, un’accusa e un giudice terzo. Oggi l’accusa è troppo contigua all’arbitro. Ora il giudice è come il visconte dimezzato di Calvino, la sua indipendenza è zoppa, pende dalla parte del pm».

Diceva che il garantismo viene spesso usato dalla politica come una fisarmonica…

«Sì, ma alle volte anche come una clava».

Appunto, molti lo sbandierano soltanto. Ma cosa vuol dire oggi essere garantisti?

«Significa restare aderenti alla presunzione di innocenza. È un principio che stiamo sostituendo con un principio di colpevolezza. Non è possibile che quando entri in caserma perché sei indagato perdi la tua identità, diventi presunto colpevole. Questa cultura si sta inserendo come un tarlo nella nostra società e dobbiamo combatterla».

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