Dopo l’uscita del figlio del Cav ripartono le manovre. Bergamini: «L’astensionismo prova quanto sia necessaria un’offerta politica liberale»
L’intervento a gamba tesa di Pier Silvio Berlusconi riapre domande annose e ricorrenti, le cui risposte non sono mai definitive: qual è il senso, la necessità, la collocazione del centro? «Le “grandi esasperazioni” che hanno caratterizzato lo scorso decennio sono un’app scaduta, per quanto ancora in uso», prova a rispondere Deborah Bergamini, deputata e vicesegretario nazionale di Forza Italia. «Le crisi geopolitiche – aggiunge – hanno riportato il tema della guerra nel ‘qui e ora’, le catene commerciali sono sotto stress, il prezzo dell’energia fluttua e con esso l’inflazione. Le minacce ibride configurano pericoli che possono arrivare da ogni dove fino ai sistemi informatici di casa nostra. Per restare in tema… dobbiamo aggiornare il software della politica. Finora agli elettori sono stati forniti i fischietti per tifare, ora dobbiamo offrire una strada da percorrere assieme. Forza Italia, in quanto partito moderato, riformista, culturalmente laico, incarna naturalmente la risposta a queste esigenze».
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Sul fronte opposto risponde Enrico Borghi, senatore e capo del gruppo di Italia Viva al Senato: «L’intervento di Pier Silvio Berlusconi conferma che non è praticabile la strada di un centro autonomo tra i due poli: l’impostazione bipolare impressa da suo padre al nostro sistema dal 1994 non lo consente. In tal senso la legge elettorale è cruciale».
Il centro: un fantasma di cui si continua a parlare. A sinistra, sembra sparito con la svolta identitaria del Pd di Elly Schlein. Sul fronte opposto, sembra ‘superato’ dalla primazia della destra di Fratelli d’Italia. Dov’è finito questo centro? Forse non serve più? «La grande quota di astensionismo dimostra che di un’offerta politica liberale c’è bisogno eccome. Come ricorda spesso Antonio Tajani e ha ricordato anche Pier Silvio Berlusconi, lo spazio elettorale potenziale è enorme», assicura Bergamini.

Che avverte gli avversari: «Le operazioni in corso per creare una forza moderata a sinistra sono velleitarie, con questo Pd e questo M5s non ci sono margini per affermare certe istanze. Può farlo solo Forza Italia nel centrodestra: semplificazione, fisco più leggero, intervento di sistema sui salari, ripensare le normative sul lavoro che sono vecchie di 50 anni alla luce della tecnologia, piena adesione all’Occidente, una scuola che unisca merito e solidarietà. L’agenda è molto fitta».
Enrico Borghi non è dello stesso avviso: «Berlusconi insegue un centrodestra che non c’è più: oggi è a trazione sovranista e nazionalista. Meloni in Europa sconta contraddizioni clamorose: sulla mozione contro Ursula von der Leyen ha dovuto smentire il suo gruppo europeo di appartenenza. Ma Meloni non vuole ereditare la destra di Berlusconi, conservatrice, popolare e liberale.
Vuole trasformarla in reazionaria e sovranista, nel solco mondiale tracciato da Trump, Farage, Milei, Netanyahu e Orban». Quindi con la polarizzazione della politica e con l’affermazione dei populismi da una parte e dall’altra, le elezioni non si decidono più al centro?
Deborah Bergamini ribalta l’argomento: «La salute dei governi si decide al centro, con la capacità di essere pragmatici, avere una visione complessa delle cose, evitare polarizzazioni e divisioni sociali che in questo momento sarebbero devastanti». Di conseguenza, assicura, «non si può sperare di vincere senza intercettare l’elettorato cosiddetto moderato. Non a caso a sinistra si sta tentando una disperata operazione di laboratorio pur di provarci».
Un’operazione che vede in primo piano Matteo Renzi, che vanta il copyright della ‘tenda riformista’ (da poco riciclata da Goffredo Bettini) ma è finito proprio nel mirino di Pier Silvio. «Nel suo attacco a Renzi, Berlusconi tradisce una preoccupazione: il lavoro di riorganizzazione dei riformisti è l’unica strada per rendere competitivo il centrosinistra contro l’attuale maggioranza di governo», spiega Borghi. Che chiarisce: «Non ci sono spazi per terzaforzismi velleitari che confondono la speranza con la politica: un desiderio non è una politica». Evidente il riferimento a Calenda e a Marattin. Secondo il senatore di Italia Viva, la tenda dei riformisti dovrebbe superare la frammentazione del centro per puntare poi al 10 per cento dell’elettorato, come in passato hanno fatto la Margherita e Scelta Civica, pescando soprattutto nel bacino degli astenuti.
Viceversa, opporre Schlein a Meloni è solo «un arroccamento identitario»: la sconfitta della sinistra al referendum «ha archiviato definitivamente l’ipotesi di un Maurizio Landini come federatore di una gauche plurielle sul modello francese di Mélenchon: dobbiamo rappresentare gli elettori che vogliono l’alternativa a Meloni ma non si accontentano del trio Schlein-Conte-Fratoianni», aggiunge Borghi. Qualcosa in questa direzione torna a muoversi anche in Europa. «Nel Regno Unito i laburisti vincono recuperando la vocazione blairiana contro l’ortodossia tradizionalista di Jeremy Corbyn, mentre Nigel Farage scavalca i conservatori. Come dimostra anche il referendum italiano, il bipolarismo non è più costruito sulla polarità capitale/destra e lavoro/sinistra, ma sulla polarità tra europeismo riformista e sovranismo nazionalista.

Tutte le elezioni europee – pensiamo a Romania e Polonia – vanno in questa direzione. La stessa polarizzazione si ripeterà nelle prossime elezioni in Spagna, nel midterm degli Stati Uniti e, nel 2027, in Italia». Nel frattempo, il centro sembra di nuovo determinante in Europa: a Strasburgo la maggioranza Ursula si appoggia prima di tutto sul perno del Partito popolare a trazione tedesca. «Il Ppe è, da sempre, il partito-architrave della funzione governativa europea e Forza Italia ne è protagonista attivo da circa trent’anni», incalza Bergamini. «Specie in questi ultimi anni – conclude la vicesegretaria di FI – ci siamo preoccupati affinché i popolari non cadessero in un europeismo solo teorico, ma anzi esprimessero l’europeismo degli Stati, delle imprese, delle famiglie.
Ci siamo adoperati per la discontinuità rispetto ad alcune scelte che ritenevamo sbagliate, come sulle politiche ambientali troppo restrittive e su quelle migratorie troppo elastiche. Abbiamo ottenuto che il Ppe cambiasse strada e se necessario continueremo a farlo». Insomma, la ricerca del centro non finisce mai.