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Parisi: «Il ‘meglio pochi ma buoni’ di Schlein condanna il Pd»

L'ex ministro Arturo Parisi

L’ex ministro valuta la condizione attuale del Pd: «La segretaria rischia di finire ai margini del Partito socialista europeo»

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Arturo Parisi ha svolto un ruolo di primo piano nella nascita dell’Ulivo: cruciale il suo ruolo nella redazione della tesi numero uno sulle riforme, quella che promuoveva il governo del primo ministro e il dialogo tra maggioranza e opposizione nella bicamerale. Deputato dal 1999, è stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri (1996-98), presidente dei Democratici (1999-2001), ministro della Difesa del primo governo dell’Ulivo, quindi componente del comitato promotore del Partito democratico. Un’esperienza più che sufficiente per valutare la condizione attuale del Pd.

Professor Parisi, il Partito Democratico nasce con il Manifesto del Lingotto: che cosa è rimasto di quel partito?

«Niente. Perché purtroppo al Lingotto non nacque nessun partito. Se la narrazione della fondazione al Lingotto avesse fondamento forse non saremmo al punto nel quale dopo diciotto anni siamo ancora ora. Se il primo segretario ne fosse stato anche il padre di certo avrebbe difeso la sua creatura spiegando almeno all’assemblea, destinata ad acclamare Franceschini come suo successore, da chi e da che cosa era stato e si era sentito costretto a gettare la spugna dopo appena sedici mesi dalla sua elezione. E dire che la sua proposta era stata salutata dagli elettori col massimo dei voti assoluti raccolti dal nuovo Partito. La verità è che il Pd, come lo stesso Veltroni ha voluto ricordare nel suo – bel – simbolo, nacque dall’Ulivo, ma troppo tardi e troppo male. A seguito di una improvvisa precipitazione tattica di chi fino a quel momento lo aveva avversato. È qui la radice delle difficoltà attuali».

Elly Schlein è stata eletta grazie a una forzatura delle norme statutarie concepita da Enrico Letta. Con il tempo sembra emergere sempre più l’evidenza che Schlein (e il suo gruppo dirigente) non abbia nulla a che vedere con la cultura del Pd riformista.

«Schlein riformista? Sarebbe troppo. Troppo poco è invece definire una forzatura delle norme la pensata di Letta che, dopo il risultato elettorale che oggi Bettini definisce “un baratro”, ha aperto la strada alla segreteria a un’estranea non al Pd riformista, ma al Partito fino ad allora esistito, senza alcun aggettivo. Altro che forzatura! Forzatura la fondazione come Letta disse a chiare lettere tra gli applausi di tutti di un “Nuovo Partito Democratico” con tanto di garanti e comitato costituente? Il mistero non sta nel come fatti recenti siano stati dimenticati così in fretta, ma starebbe invece sul chi e perché ha promosso questo processo. Penso evidentemente a Letta al quale a mio parere si adatta meglio la categoria di moderato che quella di riformista».

Antifascismo, diritti civili, salario minimo, sanità, scuola: la segreteria del Pd insiste su temi e parole d’ordine ripetitivi, ma sembra priva di un progetto per il paese. Come si fa a colmare questa lacuna?

«Appunto! Pensando al Paese. Ai suoi problemi. Quelli di tempo medio assieme a quelli del giorno. A un progetto di governo che si faccia carico della loro soluzione. E in funzione di questo a una coalizione capace di conquistare il governo dentro una competizione che cerca nel voto la maggioranza dei consensi degli italiani. È questa tensione che è venuta meno. L’impazienza di governare. Non solo di battere la controparte e andare al governo».

Il Pd ha puntato su un referendum fuori dalla storia per chiudere i conti con Renzi e i riformisti e per ricompattare la sua base. Reazionari di sinistra?

«In effetti il mandato col quale Letta è andato alla Segreteria era questo. Ricongiungersi con Articolo Uno di Bersani e D’Alema dando appunto vita alla pari a un Nuovo Pd, e chiudere definitivamente i conti con Renzi. Come si è visto il primo dei due obiettivi è stato raggiunto. Quanto al secondo non altrettanto. Ne parleremo sempre più».

Sulle proposte di riforme istituzionali avanzate da Meloni a partire dal premierato (sicuramente migliorabili), Elly Schlein ha scelto immediatamente l’Aventino. È l’atteggiamento giusto? In questo modo non viene buttata a mare la tradizione riformista dei dem?

«Diciamo pure che si è deciso di cancellare con un tratto di penna il titolo di quella che fu la scheda numero uno del programma dell’Ulivo del 1996: “Un patto da scrivere assieme”. Ricordando che “assieme” significava allora con un Berlusconi più demonizzato che mai, e che Forza Italia era ancora lontana dal poter essere letta come sezione italiana del Ppe, a sua volta equivocata come fosse un Ppi Europeo, cioè a dire una ex Dc. E lo scrivemmo perché eravamo convinti che le riforme istituzionali si scrivono assieme o finiscono male e forse neppure iniziano. Più che una colpa, un errore. Lo vedremo presto con la nuova legge elettorale che la destra si sente così autorizzata a imporci a colpi di maggioranza».

Sulla questione difesa dell’Ucraina e difesa europea l’atteggiamento di Schlein appare ambiguo, in evidente contraddizione con la linea generale del gruppo socialista europeo. Una rottura con l’europeismo del passato che colloca il Pd fuori dell’asse riformista?

«Lo colloca ai margini del Partito Socialista Europeo sotto il cui simbolo i nostri parlamentari sono stati eletti a Strasburgo. E abbiamo detto tutto. E soprattutto che, in Europa, frazionista non è la componente riformista degli italiani iscritti al gruppo S&D allineata sulla linea del socialismo europeo, ma la componente legata alla segreteria nazionale».

Il pacifismo privo di responsabilità di fronte alle sfide attuali della storia europea – magari con il sostegno di una mini-corrente a guida Tarquinio-Di Cesare – può essere la colonna portante del Partito democratico?

«Prima di congetturare attorno alla quantità della risposta elettorale e alla qualità della proposta politica di una corrente di questo tipo vorrei capire se stiamo parlando di una nuova tenda o tendina dell’accampamento pensato da Bettini per allargare il campo, o solo un letto a castello dentro il tendone Pd come è accaduto nelle ultime elezioni europee».

Goffredo Bettini ha coniato l’espressione “campo largo” e adesso quello della “tenda riformista”: lo schema prevede che accanto a una unione delle forze di sinistra si crei un partito capace di raccogliere il voto di moderati, liberali e riformisti. Può funzionare?

«Povero Bettini. Di tutto lo si può accusare fuorché di incoerenza e incostanza. Una fatica da Sisifo per adattare nelle parole e nelle immagini l’antica formula del Fronte Popolare con Partito Guida al mutar degli eventi. Prima il “campo largo”. Poi la “alleanza elettorale” a maglie larghe”. Ora l'”accampamento” di tende. Ma alla guida quello che un tempo avremmo chiamato “il gran partito” chiamato ad assicurare l’ordine all’interno del campo, e a dare col suo segno all’esterno il senso di una continuità. Può funzionare chiede lei? Diciamo pure che quanto più funziona all’interno nell’assicurare un ordine politico, tanto meno funziona all’esterno per quel che riguarda l’attrazione elettorale».

La segretaria Schlein guarda esplicitamente a sinistra con una torsione identitaria che ha rinunciato ormai alla vocazione maggioritaria del Pd. Lei che ne pensa?

«Più che alla vocazione maggioritaria il Pd ha purtroppo rinunciato da tempo a quella vocazione che un tempo si diceva generale, pensando alla classe operaia come classe generale, guidata cioè da un progetto di governo pensato per l’intera società e non solo per un suo settore. A questo punto la torsione identitaria più che una scelta è una condanna. Vi facciamo una tenda tutta vostra così non inquinate la nostra è la conseguenza inevitabile del “meglio pochi ma buoni” per guidare gli altri verso il progresso».

Schlein sembra impegnata in una competizione con Giuseppe Conte per definire i contorni della sinistra e chi è più legittimato a rappresentarla. È una gara a perdere? Dove si finisce di questo passo?

«Diciamo che è Conte ad essere costretto ad una competizione con Schlein. Quanto più dà ad intendere di subire il destino di partito co.co.co di collaboratore coordinato continuativo, al quale la stabile preminenza quantitativa del Pd lo condanna, tanto più il M5S perde gli elettori che lo avevano appunto seguito in nome della opposizione al Partito che più di tutti si era trovato ad incarnare la continuità col ceto politico tradizionale».

E Schlein?

«Schlein potrebbe pure continuare a ignorarlo ripetendo all’infinito di essere “testardamente unitaria”. Ma purtroppo l’illusione di intestare al “campo largo” e non al solo M5S la rendita accumulata da Conte al governo arruolandolo personalmente come “fortissimo punto di riferimento di tutti i progressisti” lo ha spinto ad aprire un contesa proprio per la guida del “progressismo”. Da capo del M5S avrebbe potuto interpretare la competizione su una posizione esterna allo schema destra-sinistra se non addirittura in qualche modo di centro. Una volta spinto dai Bettini e Zingaretti di turno a sinistra, ha dovuto invece attaccare, ancorché in pochette, il Pd da sinistra».

Conte e Schlein possono ambire alla leadership del centrosinistra? Sono candidati credibili al ruolo di presidente del consiglio in futuro?

«Diciamo più semplicemente: debbono. Sono condannati entrambi a coltivare e comunque ad esibire la stessa ambizione alla leadership. Ancor di più se una nuova legge elettorale costringesse il “campo largo” a competere con la destra per la premiership. Quanto poi alla composizione della contesa è un’altra cosa. Tra le staffette del passato remoto, alle primarie del passato recente le soluzioni non mancano: ognuna con i suoi petali e le sue spine. Ma vedo difficile che “una delle due” possa cedere il passo stabilmente».

Si parla di Congresso straordinario del Pd. Mancano i temi sul tappeto, mentre la segretaria Schlein sembra concepirlo per rafforzare la sua posizione di maggioranza e definire i rapporti di forza in vista delle candidature per le politiche. Come finirà?

«Congresso è una parola grossa che può usare alla leggera solo chi ha perso memoria dei partiti e dei congressi del passato. Penso comunque che lei ha ragione. Non vedo infatti chi possa costringere Schlein e i suoi a mettere a rischio il potere di nomina dei nuovi parlamentari».

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