«Per quanto mi riguarda è importante lavorare sicuramente anche per ampliare quelle che sono le condizioni di vantaggio, di anticipazione dell’uscita». Così il ministro del Lavoro, Marina Calderone, al Forum di Cernobbio. Poi, nei primi ballon d’essai sulla legge di bilancio non si era più parlato di pensioni fino a quando il sottosegretario Claudio Durigon non è ritornato ai vecchi amori leghisti: «Collegare l’età pensionabile all’aspettativa di vita è una politica bestiale verso i lavoratori». In questo Paese, cambiano le maggioranze e i governi, si ribalta il mercato del lavoro, si invertono gli assetti demografici, crolla la natalità ed esplode l’invecchiamento; per quanto riguarda l’occupazione si passa dalla retorica dell’esercito di riserva alla crisi sul lato dell’offerta, ma noi siamo sempre intenti a “rammendare le solite vecchie calze’’ dell’età pensionabile.
Nelle precedenti leggi di bilancio il governo – dando prova di quella benedetta incoerenza rispetto agli impegni programmatici delle forze politiche che lo sostengono: incoerenza che ha salvato l’Italia – aveva dato prova di non essere assatanato sui temi delle pensioni, aveva rimosso alcune delle zeppe più perniciose ereditate dal Conte 1 e recuperato alcune misure fondamentali per un disequilibrio meno insostenibile del sistema, anticipando di due anni la fine del blocco dell’aggancio automatico dei requisiti anagrafici e contributivi del pensionamento rispetto all’incremento dell’attesa di vita.
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In conseguenza, poi, delle trappole disseminate con quota 103, le famigerate pensioni di anzianità, su base annua, sono diminuite del 9%. Abbiamo davanti a noi una decina di anni anni in cui si stima (secondo il presidente dell’Inapp, Natale Forlani,) che 6 milioni e 100mila persone lasceranno il lavoro in Italia mentre non ci saranno abbastanza giovani per sostituirle; ciò, mentre, si presenteranno a riscuotere la pensione le ultime e numerose generazioni del baby boom. Un adeguamento periodico dei requisiti del pensionamento (per legge di non più di tre mesi) alle attese di vita potrebbe, quanto meno, dilazionare il numero dei trattamenti.
In un sistema finanziato a ripartizione non ha senso considerare una pensione sulla base del tempo in cui si è lavorato e versato ma è necessario tener conto – con criteri attuariali – anche del periodo in cui i pensionati/lavoratori di ieri saranno a carico degli attivi di domani; di costoro, anche senza avventurarsi nel campo della qualità dei loro rapporti di lavoro e dei loro redditi, sappiamo già con certezza che saranno in numero minore perché non sono nati. Basta osservare l’attuale struttura del mercato del lavoro dove sono prevalenti le coorti degli over 50, mentre, a scendere nelle altre fasce di età si assiste ad un decalage che non garantisce la sostituzione di chi entra nel mercato del lavoro rispetto a chi esce.
La diminuzione dell’età lavorativa
Tra il 2023 e il 2060 la popolazione in età lavorativa in Italia diminuirà del 34%. Nello stesso periodo il rapporto tra occupati e popolazione totale diminuirà di 5,1 punti percentuali. Per far fronte a questa situazione, secondo l’Ocse «le politiche del lavoro devono evolvere per aiutare i lavoratori a rimanere più a lungo nel mondo del lavoro». Vi sono poi parecchi dubbi e contrarietà a proposito all’utilizzo del Tfr – come propone il sottosegretario Claudio Durigon – per ridurre l’età pensionabile da 67 a 64 anni. Persino il ministro Calderone ha mostrato di preferirne l’allocazione per il finanziamento della previdenza complementare, tanto che a suo avviso sarebbe utile un nuova campagna semestrale di silenzio assenso rivolta alle giovani generazioni.
Ma è una strada percorribile? In uno studio dal titolo ‘‘Che ne è del Tfr devoluto al fondo Inps?’’ Giampaolo Galli e Nicolò Geraci ricordano che il Tfr lasciato dai lavoratori nel bilancio dell’impresa, (ben 100 miliardi cumulati dal 2007) viene devoluto, nelle aziende da 50 dipendenti in su, al Fondo Tesoro presso l’Inps a disposizione dello Stato per la spesa corrente. Di conseguenza, realizzare una campagna pubblica per l’adesione alla previdenza complementare con il metodo del silenzio-assenso richiederebbe un’adeguata copertura dei mancati introiti dell’Inps/Tesoro relativi al Tfr maturando.
Poiché la quota di Tfr che affluisce all’Inps ogni anno è nell’ordine dei 6 miliardi di euro, se aderisse alle forme di previdenza complementare anche solo il 10% dei lavoratori delle aziende con più di 50 dipendenti, sarebbe necessaria una copertura per circa 600 milioni. Oltre al paradosso di uno Stato che avrebbe interesse al fallimento dell’operazione che ha promosso.