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Vale 30 miliardi la spinta della pressione fiscale al gettito dello Stato

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La rivalutazione compiuta dall’Istat dei conti pubblici nazionali nel 2023 e 2024, pubblicata qualche giorno fa, è stata poco ripresa dalla stampa, comprensibilmente travolta da altri e ben più pressanti problemi internazionali. Eppure, è una lettura interessante e consente di fare un punto più preciso sia sulla situazione economica italiana che su quella dei conti pubblici. Mette in luce anche qualche difficoltà di fondo nella nostra contabilità pubblica, che dovremmo in qualche modo affrontare. Proviamo a chiarire.

Cominciamo dai punti qualificanti. Primo, si rivaluta per l’ennesima volta la crescita del Pil nel 2023, dallo 0,7 per cento stimato in precedenza ad un 1 per cento tondo. Una buona notizia certo, ma che segue già numerose altre rivalutazioni del Pil svolte in passato dall’Istat. Sembra che nelle sue prime valutazioni l’Istat tenda sistematicamente a sottostimare il Pil e la sua crescita, necessitando aggiustamenti successivi. Per esempio, come notato da vari economisti, si tende ad osservare una divergenza nelle prime stime tra crescita dell’occupazione (che per fortuna in questi anni c’è stata, anche se recentemente rivista al ribasso) e crescita del Pil, che poi si ricompone nelle revisioni successive.

Nulla di male in tutto questo, ma il problema è che la politica economica si fa avendo in mente le stime della crescita del Pil per l’anno in corso e quelli successivi. Per non parlare degli stucchevoli dibattiti sul crollo della produttività del lavoro in Italia (se cresce l’occupazione ma non il reddito, per forza questa cade) che accompagnano le prime valutazioni dell’Istat e che poi vengono sistematicamente rivisti a consuntivo. Stime più affidabili sarebbero ovviamente desiderabili. Difficile anche dire quale sia la fonte del problema, se sono ancora i retaggi del post-Covid oppure se c’è una difficoltà insita nei sistemi di rilevazione dell’Istat, per un’economia che sta diventando sempre più dominata dai servizi piuttosto che dalla manifattura, come sostenuto da alcuni. Si tratta comunque di un tema da tener presente nel dibattito.

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Secondo, la rivalutazione dell’Istat aiuta a mettere anche in prospettiva il miglioramento dei conti pubblici. I dati sono lusinghieri. Il deficit pubblico nel 2024 è sceso al 3.4 per cento del Pil, dal 7.3 per cento del 2023, e ci sono buone speranze che finisca sotto il 3 per cento nel 2025, così accelerando l’uscita dell’Italia dalla procedura di infrazione europea. L’avanzo primario (cioè, il deficit al netto della spesa per interessi) prima stimato allo 0.1 per cento del Pil risulta a consuntivo pari a mezzo punto di Pil, un risultato importante per un paese con un elevato debito pubblico (il 135 per cento del Pil) oltretutto destinato ancora a crescere in futuro per i retaggi del Superbonus. Ha ragione il governo a vantarsi del risultato, frutto della prudenza del ministro Giorgetti che ha saputo contrastare gli appetiti della sua maggioranza. Solo che guardando i dati, si capisce anche meglio da dove arriva questo miglioramento e qui c’è meno da vantarsi.

Il buon risultato del 2024 è in parte da attribuirsi al controllo della spesa pubblica, soprattutto in conto capitale, dove venivano conteggiati i contributi agli investimenti, leggi Superbonus e Bonus facciate, fortunatamente bloccati dal governo nel 2023. Ma soprattutto è dovuto all’ottimo andamento delle entrate correnti nel 2024, con una crescita del 5.8 per cento rispetto al 2023, superiore a quella nominale del Pil, il 2.7 per cento. Scavando ancora più a fondo, la crescita delle entrate è soprattutto trainata dalle imposte dirette, cioè da Irpef, Ires e ritenute sui redditi da capitale e dai contributi sociali. La conseguenza è che la pressione fiscale (il rapporto tra entrate fiscali e contributive e Pil) è risultata in crescita nel 2024 di quasi un punto e mezzo, raggiungendo il 42.5 per cento del Pil. In soldoni, si tratta di circa 30 miliardi in più di gettito, non uno scherzo.

Quando interpellata sul risultato, già anticipato dalle stime preliminari dell’Istat a marzo, la Presidente del Consiglio ha risposto dicendo che non c’è da preoccuparsi, si tratta di una conseguenza della crescita dell’occupazione. Così dimenticandosi di dire che la pressione fiscale è un rapporto e se la maggiore crescita dell’occupazione, soprattutto dipendente, fa aumentare il numeratore (cioè, le entrate tributarie e contributive) fa anche aumentare il denominatore (cioè, il Pil), perché i maggiori redditi dei lavoratori entrano nel calcolo del reddito nazionale. Non è dunque ovvio perché ad una crescita dell’occupazione dovrebbe seguire anche una crescita della pressione fiscale.

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Ma paradossalmente la Presidente ha anche ragione, sebbene per motivi diversi da quelli segnalati. Il punto è che i redditi da lavoro, particolarmente quelli da lavoro dipendente, sono molto più tassati, tra Irpef e contributi sociali, degli altri redditi che entrano nel computo del Pil. Ne segue, meccanicamente, che, quando la quota dei redditi da lavoro dipendente sul Pil cresce, tende a crescere anche la pressione fiscale. Questo è successo nel 2024, perché non solo è cresciuta l’occupazione ma anche le retribuzioni lorde (di oltre il 5 per cento rispetto al 2023), per il recupero (ahimè parziale) dei salari reali dopo la botta inflazionistica del 2022-23.

A questo va aggiunto l’effetto del drenaggio fiscale, cioè il fatto che per la progressività dell’Irpef (ulteriormente inasprita da questo governo), incrementi nominali nei redditi, anche se corrispondono a minor redditi reali, comportano un’aliquota di tassazione maggiore. Il drenaggio fiscale, sulla base di qualche conto, sarebbe responsabile da solo di quasi la metà dell’incremento di gettito registrato nel 2024.

C’è dunque poco da essere contenti. Se una conclusione dovesse essere tratta dai dati sarebbe che è urgente una revisione del sistema tributario, spostando la pressione fiscale dal lavoro, soprattutto dipendente, ad altri redditi e cespiti. Una riforma che dovrebbe essere molto più incisiva della riduzione di un paio di punti sul penultimo scaglione dell’Irpef a cui sembra stia lavorando il governo. Ma di questo, ovviamente, nessuno parla.

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