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Mediobanca dice no a Mps, Nagel è sempre più solo

L’Amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel

Parole durissime quelle del CdA milanese: «Ostile, non concordata, priva di razionale industriale, inadeguata per gli azionisti»

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Era cominciata come una sfida tecnica tra due storiche banche italiane. Sta finendo come un duello epocale tra visioni opposte di capitalismo finanziario. E al centro del ring, tra fendenti di titoli e fendenti politici, si staglia la figura sempre più isolata di Alberto Nagel. Il Ceo di Mediobanca, cavaliere dell’autonomia e interprete rigido della “finanza di progetto”, ha rispedito al mittente l’offerta pubblica di scambio (OPS) lanciata da Monte dei Paschi di Siena. Parole durissime quelle del CdA milanese: «Ostile, non concordata, priva di razionale industriale, inadeguata per gli azionisti». Eppure, se la linea è netta, il terreno sotto i piedi di Nagel si fa ogni giorno più mobile.

Gilpar, società del gruppo Lucchini e membro dell’accordo di consultazione di Mediobanca, ha venduto quasi 5.000 azioni in un solo giorno, incassando oltre 93.000 euro. È un segnale piccolo, ma rumoroso: i vecchi compagni d’arme iniziano a uscire dalla trincea. E non è sola. Secondo indiscrezioni di mercato, anche altri firmatari dell’accordo di consultazione stanno progressivamente riducendo la loro esposizione. Il fronte “mediobanchista”, un tempo coeso attorno a Delfin e Caltagirone, si sta sfaldando in silenzio, lasciando Nagel a difendere un fortino strategico sempre più scoperto. Già sono usciti Banca Mediolanum che aveva più del 3% e altri pattisti come il gruppo Gavio.

Mentre i vecchi alleati vendono, Enasarco — il fondo pensione degli agenti di commercio — sale. Il Financial Times ha rivelato che il fondo ha investito ben il 67% della sua capacità azionaria in titoli Mediobanca, raggiungendo una quota del 2,52%. Una mossa definita “inusuale e sproporzionata”, ma chiaramente strategica. Anche Enpam, fondo previdenziale di medici e odontoiatri, avrebbe acquisito un altro quasi 2% di capitale. Quote che, messe insieme, portano la soglia di successo dell’OPS MPS molto vicina al fatidico 35%. Basterebbe ora il sì di un altro 7% degli azionisti per cambiare la governance di Piazzetta Cuccia.

Non è solo una questione finanziaria. Diventa politica. L’opposizione ha già sollevato il sospetto che il governo possa aver “ispirato” i fondi previdenziali pubblici a sostenere la scalata senese. Il MEF ha smentito seccamente: nessuna regia, nessuna interferenza. Ma il sospetto aleggia, e la tensione cresce.

Dall’altra parte, Monte dei Paschi si muove con la precisione di chi sa di avere il vento favorevole. Lovaglio vuole costruire un terzo polo bancario solido, che metta insieme la base retail di MPS con le competenze d’investimento di Mediobanca. L’offerta, pur contestata da Cuccia, non è improvvisata. E grazie ai nuovi azionisti, e al contesto politico-finanziario, l’operazione assume una valenza sistemica. Si parla di “interesse nazionale”, di presidio strategico del credito italiano. Parole che riecheggiano nei corridoi dei ministeri e nei salotti della finanza romana.

Mentre in Italia si combatte una guerra tra fortini, Unicredit gioca da potenza continentale. Il gruppo guidato da Andrea Orcel ha raddoppiato la sua partecipazione in Commerzbank, portandola al 20% diretto, più un altro 9% via derivati. Una mossa che prelude a un’integrazione con HypoVereinsbank, controllata tedesca di Unicredit. Ma il governo tedesco, guidato dal ministro delle Finanze Lars Klingbeil, ha detto un secco “nein”. Lo teme per ragioni occupazionali: il rapporto costi/ricavi di Commerzbank è di venti punti più alto rispetto a Unicredit. Traduzione: più efficienza per l’italiana, ma anche tagli in arrivo per la tedesca.

Bruxelles osserva. Il portavoce della Commissione, Olof Gill, ha dichiarato che ogni operazione di consolidamento sarà esaminata nel merito, senza favoritismi. Ma per molti analisti, il caso Commerzbank-Unicredit è il test vero dell’Unione bancaria. L’Italia è stata messa sotto pressione per il golden power su Banco BPM. Berlino, finora, ha solo parlato. E la Banca Centrale Europea tace.

In questo scenario, Nagel sembra un banchiere d’altri tempi, convinto che contino ancora le fondamenta: i numeri, la strategia, la continuità. Ma il mondo intorno va in direzione opposta. Conta la velocità, il consenso, il momento. E chi si ferma, rischia. Se l’Ops dovesse andare in porto, cambierebbe il volto della finanza italiana. Ma anche se fallisse, il messaggio è chiaro: non esistono più bastioni intoccabili. E persino Mediobanca, che ha fatto e disfatto imperi, oggi deve difendere sé stessa.

Intanto, da Berlino a Milano, il risiko europeo continua. E il futuro si gioca, ancora una volta, nelle pieghe invisibili dei consigli d’amministrazione, nei silenzi dei fondi, nelle mosse fuori scena.

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