TERRE LONTANE/NUOVA ZELANDA Tamaki Makaurau è il nome maori della città fra due porti. Significa ‘desiderata da molti’ perché tutti la volevano
Atterro all’aeroporto internazionale di Auckland verso le 5 del mattino. Il viaggio è stato davvero lungo, ma sono felice di essere arrivato dall’altra parte del globo. La città dal finestrino dell’aereo è un dedalo incredibile di luci, appena illuminate dal sole che sta per sorgere. La prima aria neozelandese che respiro è fresca, umida, carica di un profumo indefinibile che sa di eucalipto, mare e terra vulcanica. Prendo un taxi elettrico verso il centro. Il conducente, un uomo di origine indiana con un forte accento kiwi, mi chiede se è la prima volta in Nuova Zelanda. «Sì», rispondo. «Allora non chiamarla solo Auckland», dice. «Chiamala Tamaki Makaurau, il suo nome maori. Significa ‘Tamaki desiderata da molti’. Perché tutti la volevano, questa terra fertile tra due porti».
È il primo, evidente impatto con questa doppia identità: la città vive in due lingue, due storie, due memorie. Non è una sovrapposizione, ma una convivenza. Il cartello stradale recita “Auckland / Tamaki Makaurau”. Il caffè del mio hotel ha un menu con nomi in maori accanto a quelli inglesi. Ordino un kawakawa latte, una tisana a base di una pianta medicinale locale, e mi siedo vicino alla vetrata che dà sul porto.
Come sempre, appena arrivo deposito i bagagli e faccio il primo giro esplorativo in città. Passeggio senza meta tra Queen Street e il Britomart. Noto subito una differenza fondamentale: qui non c’è fretta. I pedoni non si urtano, non si urla al telefono, non si corre per prendere l’autobus. C’è una calma che in Italia definiremmo «assenza di vita», ma qui è semplicemente «modo di abitare il mondo».
Salgo sulla torre che giganteggia in pieno centro: da lassù, la vista è magnifica, e la città sembra tuffarsi nelle acque del mare.
Ceno in un ristorante sul lungomare, che esibisce all’esterno una sorta di scultura moderna fatta con i gusci delle ostriche…
Ordino bluff oysters (ostriche della costa meridionale) e un piatto di paua (un mollusco simile all’abalone) con salsa al miso. Il vino è un Chardonnay di Gisborne. Quando arrivano i piatti, scopro che il cameriere è un giovane italiano che vive e lavora lì da una decina d’anni. Mi racconta di un posto davvero dall’altra parte del mondo, rispetto al nostro, dove il rispetto per l’altro è palesemente visibile in ogni circostanza. Probabilmente, i neozelandesi stanno ancora facendo i conti con una cultura locale, quella dei Maori, che è stata messa in serio pericolo nel passato.
Torno in albergo con la sensazione di aver appena sfogliato la prima pagina di un libro complesso.
La mattina successiva comincia con una colazione in un locale eccentrico nel quartiere di Ponsonby: uova alla Benedict con kawakawa pestato e pane di segale fatto in casa.
Fuori, il sole filtra tra le foglie degli alberi tropicali. Auckland è una città verde, non solo nel senso ecologico ma nel senso botanico: ovunque alberi, giardini, rampicanti. E qua e la anche colonnine di erogazione gratuita dell’acqua, dove quasi tutti si riforniscono riempiendo le inseparabili bottiglie in tasca.
Dedico la mattinata a High Street e alla Galleria d’arte. La collezione permanente è un dialogo continuo tra arte europea e arte maori contemporanea. Resto colpito da un’installazione di Lisa Reihana: in Pursuit of Venus [infected], un video che rielabora un famoso panorama francese del XIX secolo, popolandolo con figure indigene che guardano, parlano, resistono.
È una critica postcoloniale fatta con grazia, non con rabbia.
Nel pomeriggio, incontro Hana, una storica dell’Università di Auckland, specializzata in studi maori. Ci sediamo al Café Hanoi, un piccolo locale gestito da una famiglia vietnamita, simbolo della diversità asiatica della città: oltre il 30% della popolazione ha infatti origini asiatiche. Hana mi spiega che «la Nuova Zelanda non ha un’identità nazionale fissa. La costruiamo ogni giorno, attraverso il tikanga, le pratiche culturali e il kaitiakitanga , la custodia della terra». Per l’ennesima volta, il mio pensiero corre alla grande distanza, non solo geografica, con la nostra nazione.
Mi racconta del Trattato di Waitangi del 1840, il patto tra la Corona britannica e i capi maori, tradotto in modo ambiguo, fonte di conflitti per decenni, ma oggi base di un processo di riconciliazione. «Non siamo perfetti» – dice – «ma stiamo provando a riparare».
La sera, torno a Britomart e mi fermo a un piccolo bar di jazz, dove suona un trio con un sassofonista samoano. Ascolto, bevo un whisky di distilleria locale (sì, la Nuova Zelanda ha anche quella), e penso a quanto questa città sia un mosaico sonoro: maori, pakeha, polinesiani, asiatici, europei… tutti presenti, nessuno dominante.
Prendo il traghetto al mattino presto dal terminal di Downtown. In 40 minuti, attraverso il golfo di Hauraki, raggiungo Waiheke Island, nota come “l’isola del vino e dell’arte”.
Waiheke è un’altra Auckland: più lenta, più mediterranea, ricorda vagamente le colline dell’Italia centrale, con vigneti, ulivi e case in legno con verande. Raggiungo un punto panoramico e ciò che vedo mi lascia senza fiato: il mare blu cobalto, le isole sparse come macchie di inchiostro. Decido di fermarmi a pranzo, e trovo un piccolo ristorante che serve formaggio di pecora con miele di manuka e un syrah corposo. La cameriera che mi serve è pure lei italiana, una giovane ragazza della provincia di Milano che è fuggita dall’Italia un paio d’anni prima perché non trovava lavoro che le permettesse di vivere a Milano dignitosamente. «Qui mi sento realizzata, la vita costa ma gli stipendi sono adeguati. E poi, mi piacciono moltissimo i neozelandesi, gente seria». Parlo con il vignaiolo, un ex ingegnere di Wellington che ha lasciato tutto per «vivere con la terra». Mi dice: «Qui non contano i titoli. Conta come tratti la vigna».
Nel pomeriggio, visito un parco all’aperto con opere di artisti neozelandesi. Una scultura in particolare mi colpisce: una canoa maori in acciaio, sospesa tra gli alberi, che sembra navigare nell’aria. Simbolo di viaggio, memoria, radici.
Torno ad Auckland al tramonto. Il traghetto è quasi vuoto. Guardo la città emergere dall’acqua, illuminata da luci discrete. Penso a Venezia, ma senza il clamore, senza i turisti a milioni. Qui, la bellezza è intima.
Dedico la giornata successiva ai maunga, i vulcani spenti che punteggiano la città, a partire da Maungakiekie, un luogo sacro per i maori. Salgo a piedi, lungo un sentiero ombreggiato. In cima, un obelisco commemorativo e una vista a 360 gradi. Ma ciò che più mi colpisce è il silenzio. Non c’è nessuno, c’è solo il rumore del vento. Poi mi dirigo verso Mount Eden, che i maori chiamano Maungawhau, il più alto della città. Qui incontro un anziano maori, Hemi, che mi invita a sedermi. Mi racconta che questi vulcani non sono solo formazioni geologiche: sono tupuna, antenati. Ogni maunga ha un nome, una storia, un wairua, uno spirito.
Mi parla del Pa, il villaggio fortificato che un tempo sorgeva qui. «I nostri nonni non costruivano per durare. Costruivano per vivere. Poi, quando era il momento, lasciavano andar».
Un pensiero che contrasta con la nostra ossessione per l’eternità.
La sera, partecipo a una hangi, la tradizionale cena maori, organizzata da un centro culturale a Orakei. Il cibo – pollo, kumara, patate dolci, zucca – viene cotto sottoterra con pietre roventi. Mangiamo seduti per terra, in cerchio. Prima del pasto, un anziano recita un karakia, una preghiera. Non è religione, mi spiega Hana «è riconoscimento: ringraziamo la terra, il cibo, gli spiriti».
Torno a casa con il sapore del fumo e della terra in bocca.
Parto all’alba per Rotorua, a due ore e mezza di autobus. La città è famosa per le sue attività geotermali e la forte presenza maori.
Appena arrivato, vengo investito da un odore sulfureo, zolfo, come uova marce.
Visito il Te Puia, un centro culturale e geotermale. Qui vedo geyser, fanghi bollenti, e una scuola di intaglio del legno e tessitura e incontro Tama, un giovane maori con tatuaggi ta moko sul viso, che mi spiega che l’arte maori non è decorativa: è whakapapa, genealogia. Ogni motivo racconta una storia di famiglia, di tribù, di connessione con il mondo naturale.
Nel pomeriggio, faccio un bagno nelle sorgenti termali. L’acqua calda, ricca di minerali, mi rilassa. Osservo le persone: neozelandesi, giapponesi, tedeschi, italiani. Tutti in silenzio, tutti in ascolto del proprio corpo. Mi fermo lì la sera, dormo in un complesso comunitario maori che chiamano “marae”, e ho la possibilità di osservare il cielo davvero pieno di stelle. Non c’è inquinamento luminoso. Penso a quanto, in Italia, abbiamo perso la capacità di guardare il cielo.
Torno ad Auckland con un treno panoramico che costeggia la costa orientale. Il viaggio è lento, contemplativo. Mi godo un panorama che non ha nulla a che vedere con quanto ho visto finora in giro per il mondo.
Nel pomeriggio, torno al porto. Mi siedo su una panchina vicino al Ferry Building e osservo i traghetti andare e venire. Parlo con un pescatore filippino che lavora qui da vent’anni. «Auckland è casa», dice «ma non dimentico le mie radici. Le porto nel cibo, nella lingua, nei sogni».
La sera, partecipo con amici universitari a una lettura di poesia all’Università di Auckland. Leggono poeti maori, pakeha, cinesi, indiani. Una giovane poetessa di origini samoane recita una poesia su sua nonna che faceva il pane in un forno di pietra. La sala è silenziosa, attenta. Non c’è competizione, solo condivisione. L’ultimo giorno neozelandese vado al mercato del pesce. I venditori gridano i prezzi, ma con un tono musicale, quasi ritmico. All’uscita, compro minuscoli pesci fritti in pastella, e li mangio seduto su una banchina. Poco distante, tre musicisti di strada improvvisano un concerto in verità poco seguito: sembrano un corpo estraneo, in qualche modo.
Poi, passeggio per Karangahape Road, il quartiere alternativo, pieno di negozi vintage, gallerie d’arte underground, caffè anarchici. Entro in una libreria gestita da una collettiva femminista e acquisto una raccolta di racconti di Patricia Grace, una delle prime scrittrici maori.
Nel pomeriggio, torno a Mission Bay. Mi siedo sulla spiaggia, guardo i bambini giocare, i cani correre, le barche a vela scivolare sull’acqua. Penso a quanto questa città mi abbia insegnato a rallentare, a guardare con rispetto, a non pretendere di capire subito.









