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Arendt e l’umanità superflua: pensieri senza banalità

Mezzo secolo fa la morte di una filosofa non accomodante. La sua lezione, l’ostinazione a voler capire senza giustificare la colpa


Il 4 dicembre 1975, a New York, in un appartamento di Riverside Drive affacciato sull’Hudson la vita di Hannah Arendt si ferma all’improvviso. Ha sessantanove anni, un posacenere colmo accanto alla macchina da scrivere e un libro ancora aperto sul tavolo: il progetto, incompiuto, di una teoria del giudizio. Cinquant’anni dopo, mentre la ricordiamo, quel momento non somiglia a una chiusura, ma a un’interruzione: come se la sua voce avesse smesso di parlare a metà di una frase che ci riguarda ancora.

Arendt non è mai stata una pensatrice accomodante. Diffidava delle formule salvifiche, delle teleologie rassicuranti, dell’idea che la storia segua un corso necessario. In un secolo che ha conosciuto ideologie totalizzanti e filosofie ansiose di dare un senso ultimo al disastro, la sua ostinazione a capire senza giustificare la colpa resta una delle sue lezioni più esigenti.

Quando nel 1906 nasce ad Hannover, in una famiglia della borghesia ebraica assimilata, nessuno può immaginare che diventerà una delle più influenti filosofe del Novecento. Tuttavia Arendt rifiuterà l’etichetta di “filosofa”, preferendo definirsi una teorica politica. La sua formazione si svolge tra Königsberg, Marburgo e Heidelberg: incontra Martin Heidegger, con cui intreccia una relazione amorosa e intellettuale tanto intensa quanto problematica; poi Karl Jaspers, che diventerà la figura decisiva per il suo modo di concepire il dialogo e la responsabilità. Il pensiero, per Arendt, non sarà mai un monologo astratto, ma una conversazione ininterrotta con gli altri e con sé. La storia irrompe brutalmente nella sua biografia.

Nel 1933 Arendt viene arrestata dalla Gestapo per il suo lavoro di documentazione sulla propaganda antisemita. È il momento in cui comprende che non basta più “capire” ciò che sta accadendo: è necessario agire, fuggire, aiutare gli altri a fuggire. Ripara a Parigi, lavora con le organizzazioni sioniste, sperimenta per la prima volta la condizione di profuga. Nel 1940 è internata nel campo di Gurs assieme ad altre donne “straniere nemiche”; ne uscirà grazie a una fuga rocambolesca, per poi imbarcarsi verso gli Stati Uniti nel 1941.

Per quasi vent’anni Arendt è apolide, priva di qualsiasi cittadinanza. Questa ferita giuridica diventa la chiave per leggere l’epoca. I profughi, gli internati, i senza documenti non sono, per lei, un’emergenza marginale ma il sintomo di una malattia politica profonda: l’idea che i diritti umani, proclamati come universali, siano in realtà garantiti solo a chi appartiene a uno Stato. Da qui la formula – semplice, radicale – del “diritto ad avere diritti”: prima ancora dei singoli diritti occorre il riconoscimento di appartenere a una comunità politica che li renda esigibili.

Stabilitasi a New York, Arendt ricomincia da capo. Scrive per giornali e riviste, lavora per organizzazioni ebraiche, frequenta gli ambienti dell’emigrazione europea. Poi, lentamente, entra nelle università americane: Princeton, Chicago, la New School, e tiene lezioni e conferenze in diversi atenei, tra cui Berkeley, dove il suo modo di leggere i classici diventa per molti studenti un’esperienza intellettuale decisiva. È una presenza anomala: donna, ebrea, senza alle spalle l’ortodossia accademica della filosofia sistematica.

Si definisce “teorica politica”, non “filosofa”: un modo per rivendicare una posizione laterale, distante tanto dalla chiusura specialistica quanto dall’impegno militante di partito. Nel 1951 pubblica “Le origini del totalitarismo”, il libro che la farà conoscere nel mondo. Non si tratta di una semplice storia del nazismo e dello stalinismo, ma di un tentativo di pensare ciò che accade quando la combinazione di ideologia, terrore e burocrazia punta a eliminare l’imprevedibilità della libertà. Il totalitarismo, per Arendt, non è solo un regime particolarmente brutale: è un esperimento politico che mira a trasformare gli esseri umani in materia prima, in “superflui”, spezzando i legami sociali e distruggendo lo spazio della politica. La domanda sotterranea del libro – come è stato possibile? – continua a risuonare anche quando i grandi totalitarismi sembrano relegati ai manuali di storia. Ma Arendt non vuole restare prigioniera della catastrofe. In “Vita activa. La condizione umana”, del 1958, sposta lo sguardo sulla possibilità positiva della politica. Distingue lavoro, opera e azione per descrivere i diversi modi in cui gli esseri umani abitano il mondo: il lavoro sostiene la vita e ne soddisfa i bisogni essenziali, l’opera costruisce oggetti e istituzioni durature, l’azione è il luogo in cui la libertà appare nello spazio che le persone condividono. Al centro non c’è l’individuo sovrano, ma la pluralità: siamo liberi solo nella misura in cui siamo capaci di stare gli uni davanti agli altri, di prendere la parola, di assumere l’iniziativa. Qui entra in scena una delle categorie più originali del suo pensiero: la “natalità”. Ogni nascita introduce nel mondo qualcosa di imprevedibile, una possibilità di cominciare che nessuna struttura può completamente assorbire. Contro le filosofie ossessionate dalla morte, Arendt scommette sul potere fragile degli inizi: la politica, quando è viva, è il luogo in cui questa capacità di inaugurare qualcosa di nuovo trova spazio, protegge la promessa e il perdono, rende abitabile il tempo che condividiamo.

Il momento più controverso della sua vita pubblica arriva però nel 1961, quando il “New Yorker” la manda a Gerusalemme a seguire il processo contro Adolf Eichmann, l’uomo che aveva organizzato la logistica della deportazione degli ebrei europei. Arendt si aspetta di incontrare un mostro e si trova davanti un funzionario goffo, grigio, mediocre, che parla per frasi fatte e cliché burocratici.

Nel libro “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” descrive questa scoperta e azzarda una tesi destinata a scatenare polemiche: il male può presentarsi non come demoniaca profondità, ma come terrificante superficialità, come rifiuto di pensare. Eichmann, scrive Arendt, non è stupido né psicopatico; è un uomo che ha rinunciato alla facoltà di giudicare.

Si nasconde dietro gli ordini, dietro la legge, dietro la carriera, fino a non vedere più gli esseri umani che le sue decisioni condannano alla morte. La “banalità del male” non significa che il male sia cosa da poco, ma che può essere compiuto da persone ordinarie quando si rassegnano a non pensare in proprio. È questa possibilità, più ancora del passato nazista, a inquietare il lettore contemporaneo. Le reazioni al libro sono violentissime, soprattutto in parte del mondo ebraico americano. Arendt viene accusata di mancanza di empatia verso le vittime, di aver sottovalutato l’antisemitismo, di aver quasi “umanizzato” Eichmann. In realtà ciò che rifiuta è sia la demonizzazione che trasforma il criminale in un’eccezione assoluta, sia la spiegazione che riduce tutto a una necessità storica. Vuole mantenere aperto lo spazio del giudizio, e quindi della responsabilità: il male non è un destino, ma un rischio e una scelta che si rinnova ovunque gli individui preferiscano rifugiarsi nei cliché anziché interrogarsi su ciò che fanno.

Negli ultimi anni Arendt lavora a “La vita della mente”, libro rimasto incompiuto, un’indagine sulla triade pensare, volere, giudicare. È qui che il richiamo a Kant diventa decisivo. Dal filosofo della Critica del giudizio riprende l’idea che giudicare non significhi applicare una regola, ma esercitare un “pensare allargato”: sapersi porre dal punto di vista degli altri, immaginare come il mondo apparirebbe a chi ci è diverso. Questa facoltà, fragile e non codificabile, è per Arendt il vero fondamento della responsabilità politica. Quando questa capacità si spegne – quando deleghiamo ad altri, o a un sistema, o a un algoritmo, la fatica di decidere – si apre la possibilità del peggio. Il giudizio, allora, è il luogo in cui il pensiero diventa pubblico, e in cui ciascuno è chiamato a dire: “questo sì, questo no, lo dico io”.

A cinquant’anni dalla sua morte, Arendt ci parla da molti fronti. Nella sorte dei migranti respinti alle frontiere, dei lavoratori senza garanzie, dei cittadini di serie B, torna la figura inquietante di una parte dell’umanità resa superflua e ridotta a scarto. Nella potenza pervasiva degli apparati burocratici e digitali riemerge la tentazione di ridurre la politica ad amministrazione neutrale. Nella facilità con cui discorsi d’odio e teorie complottiste circolano travestiti da opinioni come le altre, si riconosce la fragilità del giudizio pubblico. Non viviamo in una replica degli anni Trenta, e Arendt non ci offre consolazioni facili. Ci consegna però alcune bussole. La prima è l’idea che la politica non sia principalmente governo, ma spazio di confronto: luogo in cui ci mostriamo gli uni agli altri, mettiamo in gioco le nostre parole, accettiamo il rischio dell’azione. La seconda è la convinzione che nessuna istituzione, per quanto ben congegnata, possa sostituire la responsabilità dei singoli. La terza è la difesa ostinata della pluralità contro tutte le nostalgie dell’Uno, che si tratti del popolo etnicamente puro, del mercato autoregolato o della Verità con la maiuscola.

Le fotografie più celebri la ritraggono seduta su una poltrona, una sigaretta tra le dita, lo sguardo ironico di chi ha attraversato abbastanza rovine da diffidare delle parole troppo solenni. Arendt amava definire il proprio lavoro con un’espressione discreta: “comprendere”. Non assolvere, non condannare una volta per tutte, ma sottrarsi sia all’oblio sia al moralismo sterile, per restituire agli eventi la loro complessità e quindi la nostra responsabilità. È forse questo il nucleo del suo “amor mundi”, l’amore per un mondo che non è mai come dovrebbe essere ma che proprio per questo merita di essere ripensato e difeso. Se oggi la celebriamo non è perché il suo nome sia diventato icona rassicurante, buona per ogni citazione, ma perché il suo pensiero continua a incrinare la nostra quiete. Ci chiede se siamo all’altezza della libertà che ereditiamo, se sappiamo ancora esercitare il giudizio in un tempo che lo scoraggia, se vogliamo essere spettatori o attori che si assumono il rischio dell’azione. La sua eredità non è un sistema da applicare, ma un compito: tenere insieme lucidità e amore del mondo, senza smettere di pensare là dove tanti preferirebbero chiudere gli occhi.

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