Città fantasma e spopolamento: il Sud si svuota, il Nord resiste e, tra le due Italie della crisi demografica, c’è un Centro a doppia velocità. Firenze, Roma – le grandi città – attrattive e moderne, sovraffollate e care, ma intorno, lontano dagli epicentri di turismo, impresa, arte, giacciono territori depressi, sempre più colpiti dall’emigrazione.
È la Toscana la regione italiana con il maggior numero di paesi fantasma: se ne contano ventuno dove i residenti sono meno di mille. Ma non va meglio in Umbria, con le zone più lontane dai celebri centri turistici sempre più deserte: meravigliose, ma a volte inaccessibili e poco attrattive sotto il profilo dell’occupazione. Alcuni di questi borghi si sono legati tra loro per offrirsi a un turismo di nicchia che prende sempre più piede: Umbriano, Biselli, Torre del Colle di Bevagna e Marzana, per citare qualcuna delle località in questione, sono le tappe di un tour che, sicuramente, non ha eguali in Italia e nel mondo. Ma è poco per pensare a un indotto economico valido al punto da invertire la rotta migratoria. Borghi disabitati, dunque, come Scoppio, ancora, che si trovano proprio sulla linea che unisce Umbria, Lazio e Toscana.
È questa la zona simbolo dello spopolamento, la cintura del Bel Paese, che conta un numero di borghi abbandonati in costante aumento o con una popolazione che va assottigliandosi inesorabilmente. E i motivi storico-economici sono diversi. Iniziato con l’abbandono rurale, l’esodo dalle zone interne delle regioni del Centro ha avuto una nuova ondata decisiva con l’aumento delle fabbriche nei sobborghi del Settentrione.
Il trend delle coppie che si trasferiscono in città per metter su famiglia non si è mai più arrestato e ha generato l’impattante fenomeno delle zone, sempre più estese, in cui non si nasce più. Man mano che le vecchie generazioni scompaiono, non ce ne sono di nuove a subentrare.
La cintura d’Italia ha continuato a svuotarsi, poi, dopo le violente scosse che, nel 1997, hanno colpito finanche la Basilica di San Francesco d’Assisi, lasciandosi dietro morti e distruzione.
Successivamente, almeno altri due altrettanto potenti terremoti (2009 e 2016) hanno disconnesso la fascia appenninica che cuce il Sud al Nord d’Italia. Terre di santi, pregne delle orme indelebili dei grandi probi, asceti e martiri che le hanno calpestate, si sono via via desertificate, polarizzando la popolazione intorno a basiliche, chiese e cattedrali del circuito turistico religioso, e lasciandosi dietro deserti senza vita. Nulla è più stato come prima. Perché, tra un sisma e l’altro, le ricostruzioni non sono riuscite a raggiungere nemmeno il grado di sufficienza, con interi borghi per anni traslati fuori dalle loro stesse mura – come Norcia, per dirne una – con le botteghe nei dehor di legno, fuori dalla cinta muraria, dentro la quale, per troppo tempo, son rimaste ammassate le rovine della Basilica di San Benedetto che, dopo nove lunghi anni di attesa, inciampi, promesse e ripartenze, a fine mese, finalmente, riaprirà al culto. Ma per tanto tempo è rimasto tutto lì, immobile e annichilito, in poche centinaia di metri quadrati: anni di incredibile tolleranza della popolazione locale, resiliente nonostante le speranze tradite. Che hanno alimentato il disincanto e il bisogno di fuggire via nelle nuove generazioni, sempre meno propense a restare a certe condizioni.
Anche ai piedi di Cascia, per troppo tempo, le ferite del sisma sono rimaste vergognosamente visibili, ma il culto e la fede, sapientemente sospinte dalle politiche a sostegno di un turismo religioso – che è pur sempre la prima voce del PIL locale – hanno tirato fuori il paese in cui visse santa Rita, e dove le sue spoglie riposano, così com’era stato in precedenza per la stessa Assisi, dalle sabbie mobili di burocrazia e reperimento di risorse, mentre interi borghi meno vocati a Santa Romana Chiesa rimanevano indietro fino a spopolarsi e ridursi a mura diroccate, legni scrostati, finestre cieche, porte e cancelli di ferro mangiato dalla ruggine a guardia del niente.
Una situazione che affligge anche le aree nate dopo la bonifica delle paludi pontine, per mano del regime fascista, che portò, negli anni Trenta del ’900, alla fondazione di Littoria – poi Latina, dopo la Guerra – Sabaudia, Aprilia, Pontinia e Pomezia. L’Agro Pontino crebbe in economia rurale e allevamenti, si rese autonomo e si difese per decenni. Ma oggi, cosa resta di quei centri? Resistono circondati da desolazione e borghi semideserti, tanto che la Regione Lazio ha lanciato, di recente, misure a sostegno dei piccoli borghi, ma anche politiche per la genitorialità e la famiglia.
Insieme ai fondi del Pnrr che, nel Centro come altrove, promettono nuova linfa e speranza, tanti sono i progetti che puntano a riportare in vita i paesi fantasma. Ci sono addirittura Comuni che pagano chi vi si trasferisce, altri che mettono in vendita case a costi simbolici.
Ma non bastano risorse, iniziative al limite dell’incredibile e carte bollate. Servono idee, costanza, impegno. Come a Civitaretenga, frazione di Novelli (L’Aquila), nel Sud che è quasi Centro, dove ogni agosto si tiene la Festa delle Narrazioni Popolari, che fa rivivere storie di resistenza e di partigiani, di donne indomite e luoghi eterni, di persone vissute secoli o pochi decenni fa. E di aneddoti di un terremoto che ha disconnesso il suolo e scucito il tessuto sociale; leggende sui luoghi oggi deserti, attraverso racconti orali tramandati per secoli; racconti, ma anche francobolli e murales su quei muri antichi a testimoniare un pezzo di storia di un Paese che è un pezzo di storia d’Italia.
La Festa, nata da un’idea di Luca Moretti con l’associazione Terranullius, dal 2023 fa rivivere Civitaretenga e crea un caso. Perché riporta la vita dove tutto sembra fermo in una dimensione spettrale e trapassata.

di MARY LIGUORI