Soprannominato ‘la Freccia del Sud’ come il treno dal 1953 nella vita dei meridionali che “salivano a Milano” e nella nostalgia del ritorno
A leggere i nomi (i cognomi per la precisione) sembrano personaggi disegnati da una matita o inventati da una penna (oggi si direbbe tastiera). E invece Pallamolla, Acquafredda e Gambatesa erano tre ragazzi reali (i nomi erano tre bei nomi italiani, Salvatore, Giuseppe e Domenico, giacché allora i bambini non li chiamavano Alan né Kevin come avrebbe poi scherzato Carlo Verdone) che correvano a perdifiato per certe vie e piazze di Barletta, che allora non faceva provincia ma era in quella di Bari, e poi sulle piste di atletica di Puglia e d’Italia.
E quelli erano i loro cognomi sui documenti. C’era un quarto nella staffetta, come è sempre necessario. Si chiamava Mennea. Pietro Paolo Mennea, nato il 28 giugno 1952, papà Salvatore di mestiere sarto (era lui a cucirgli addosso i primi pantaloncini da campo), mamma Vincenza che lo aiutava con ago e filo. Gente come tanta, in quel Sud che arrancava dimenticato, ma mai domo.

Pietro non arrancava quando correva, pure “storto e contorto” com’era e come lo hanno raccontato, la prima alludendo al fisico che non era quello del velocista da manuale dell’atletica, la seconda ai tanti pensieri che gli scoppiavano dentro e che elaborava coinvolgendoti di parole.
Erano ragazzi di pelle bianca (a quei tempi i migranti eravamo noi) mica neri come l’ebano, o come Jesse Owens che faceva parte del quartetto d’uomini statunitensi che per primo aveva buttato giù il muro dei 40 secondi nella 4×100 maschile a Berlino olimpica nel 1936 (due, Draper e Wykoff erano bianchi, l’altro, Metcalfe, era nero, e volevano escluderlo per quello, Jesse no perché andava troppo forte e toglierlo sarebbe stato il famoso “dispetto alla moglie”).
O come i quattro, statunitensi anch’essi, che andarono sotto i 39 (tra di loro c’era anche O.J. Simpson, poi famoso per il football americano e per il giallo del femminicidio della sua ex moglie e del di lei amante: venne assolto con gran scandalo, che la giustizia non è uguale per tutti), o quelli, USA pure questa volta, che sprintarono sotto i 38 in una di quelle non frequenti volte che gli americani non si perdono per la pista il testimone (qui c’era Carl Lewis) o i giamaicani sotto i 37, e tra di loro era Usain Bolt che con Carter, Frater e Blake fece il 36.84 che è tuttora, dal 2012, record del mondo.
«Sì, ma sono nero dentro» sorrise Mennea, che non viene da chiamarlo solo Pietro, perfino lui si dava “del Mennea” parlando di se stesso. Lo fece quando fu presentato a.come quel che era, l’uomo più veloce del mondo, e Alì lo guardò dall’alto di quei 10 centimetri in più che aveva e disse meravigliato: «Ma tu sei bianco!».
Provò a mettersi in marcia il ragazzino Pietro, come facevano tanti a Barletta dov’era in voga il “tacco e punta”, ma poi lo indirizzarono alla velocità: e cominciò a battere Pallamolla, che prima vinceva sempre.
E, una volta cominciato, non smise più, anche se i Pallamolla erano Alan Wells («recupera, recupera, recupera» scandiva Paolo Rosi nella telecronaca da Mosca ’80: recuperò l’oro) o Borzov che vuol dire levriero; anche se i crono erano il record del mondo che lui migliorò correndo i 200 metri in 19.72 a Città dal Messico nel 1979, battendo quel primo “sub 20”, il 19.83 che resisteva con Tommie Smith da 11 anni (sempre lassù, tra le nuvole del Messico, dove l’aria è più fina e penetrabile) e che resistette per 17 anni fino al 19.66, e qualche mese dopo 19.32 di Michael Johnson ad Atlanta: aiutavano l’americano le scarpe volanti, che potevi usarle una volta sola sennò prendevano fuoco. Poi venne Bolt fino al 19.19 che dicono gli esperti «è imbattibile».
Per battere Pallamolla prima e tutti gli altri poi, Mennea si allenava 350 giorni all’anno, quasi tutti i giorni, certamente tutti gli anni della sua carriera che lo portò a diventare un mito e un proverbio, che prima i ragazzini degli Anni Trenta volevano essere forti come Carnera, quelli di dopo pedalare come Coppi e i successivi correre come Mennea. È che, hanno detto, «Berruti aveva bisogno di avversari, Mennea di nemici» e forse il primo Pallamolla era, per Pietro, se stesso.
Lo chiamavano, un po’ banalmente, “la Freccia del Sud” come quel treno che dal 1953 era entrato nella vita dei meridionali che “salivano a Milano” e nella loro nostalgia del ritorno: collegava Milano a Palermo e Siracusa, e viaggiava fino a Reggio Calabria alla media velocità commerciale di 72 chilometri orari, che magari lo facesse oggi in qualche tratta siciliana. Pare che arrivasse perfino in orario, come quando c’era Lui…
Partecipò a quattro finali olimpiche consecutive nei 200 (dal 1972 al 1984) e poi prese pure quattro lauree il dottor Mennea (e l’onorevole Mennea: fu eletto parlamentare europeo), sconfisse, si racconta, una Porsche e un’Alfa Romeo 1750 in una sprint race a Barletta, vinse un oro olimpico e tre europei, conquistò un argento mondiale e due europei, due bronzi olimpici e uno mondiale, fu primatista del mondo, d’Europa e d’Italia, si prese cinque ori alle Universiadi e otto ai Giochi del Mediterraneo. Ha scritto libri e leggende. Ha sofferto ma anche sognato di più: l’ha detto lui.