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Tokyo silenziosa: viaggio nel cuore invisibile del Giappone

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La curiosità per chi arriva da fuori: come si relazionano gli esseri umani in un posto dove ogni gesto sembra misurato, ogni parola pesata, ogni sguardo velato?

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La mattina si presenta con una luce obliqua che filtra tra le tende sottili del mio alloggio a Yokohama, una stanza d’albergo nella piazza antistante la stazione dei treni, dalla quale vedo in lontananza il mare e il porto.

Il profumo del caffè solubile si mescola all’odore salmastro del mare, eppure oggi non è il porto a chiamarmi, ma Tokyo: la sua vertigine, il suo silenzio rumoroso, la sua capacità di nascondere l’antico dietro il futuribile. Prendo il treno e mi lascio trasportare lungo i binari che collegano questa città sorella alla metropoli pulsante. Non ho un piano preciso. Solo una curiosità vagabonda e una domanda che mi porto dentro: come si relazionano gli esseri umani in un posto dove ogni gesto sembra misurato, ogni parola pesata, ogni sguardo velato?

Scendo a Shibuya, dove il famoso incrocio è già un fiume umano. Migliaia di persone si muovono in sincronia apparente, come se obbedissero a un codice invisibile. Nessuno si scontra, nessuno alza la voce. Eppure, ognuno è solo. Mi fermo a un angolo, appoggiato a un muro di cemento grigio, e osservo. Un uomo anziano in giacca scura cammina con passo lento, tenendo per mano un bambino che indossa un’uniforme scolastica.

Si fermano a un distributore automatico, comprano due lattine di tè verde, ne aprono una ciascuna, bevono in silenzio, poi ripartono. Nessuna parola. Solo gesti. Eppure, tra loro, c’è un’intimità che non ha bisogno di suono. Mi avvicino a una ragazza con i capelli turchese e un cappotto vintage. Le chiedo, in un inglese ricambiato abbastanza bene, se può spiegarmi perché qui la gente non parla molto con gli sconosciuti. Sorride, non con imbarazzo, ma con una gentilezza quasi rituale. «Non è che non parliamo», mi dice.

«È che ascoltiamo prima di parlare. E a volte, ascoltare basta».

La sua frase mi accompagna per il resto della giornata. Più tardi, vicino alla stazione, vedo un gruppo di impiegati in completo nero che condividono sigarette fuori da un edificio grigio. Fumano in silenzio, ma ogni tanto uno di loro fa un piccolo cenno con la testa, e gli altri ridacchiano. Non sento le parole, ma colgo il ritmo: è un linguaggio di complicità costruito su anni di convivenza forzata, trasformata in qualcosa di simile all’affetto. Uno di loro mi nota e, con un gesto appena accennato, mi offre un tiro. Rifiuto con un inchino leggero.

Lui annuisce, come se avesse capito perfettamente. Cammino verso Harajuku, dove il contrasto tra tradizione e ribellione è quasi fisico. Ragazze vestite in modalità kawaii estremo, questa tendenza all’essere carine a tutti i costi, con calzini a balze e gonne a ruota sfilano accanto a ragazzi con capelli a cresta e giubbotti patchwork. Ma anche qui, tra il caos cromatico, regna un ordine silenzioso. Nessuno urla, nessuno spinge. Anche la ribellione ha le sue regole. Mi fermo da Totti Candy Factory, dove un uomo anziano, forse il proprietario, prepara giganteschi zuccheri filati rosa con la concentrazione di un monaco zen. Una bambina gli porge una moneta con entrambe le mani. Lui le consegna il dolce nello stesso modo.

È un piccolo rito di scambio, carico di rispetto. Gli chiedo da quanto tempo fa questo lavoro. «Da prima che Harajuku diventasse famosa», dice. «Ma la gente cambia, lo zucchero no». Ride, e il suono è raro, quasi fuori posto in questa città di sussurri. Nel pomeriggio, mi sposto a Shimokitazawa, un quartiere che sembra uscito da un romanzo di Murakami. Viuzze strette, negozi di vinile, caffè con tende di lino, biciclette appoggiate ai muri come se fossero state lasciate lì da sognatori distratti. Qui il tempo rallenta.

Mi siedo in un kissaten, un caffè tradizionale nipponico, dove il proprietario, un uomo sulla sessantina con baffi curati e occhiali spessi, prepara il caffè con una precisione quasi sacra. Gli chiedo da quanto tempo gestisce il locale. «Da quando mio padre ha smesso», risponde. «E lui da quando suo padre ha smesso». Non aggiunge altro. Ma il modo in cui posa la tazza davanti a me — con due mani, leggermente inclinata verso di me — dice più di mille parole. Parlo con una coppia di studentesse universitarie che condividono un dolce al tè matcha. Una mi racconta che, a differenza dell’Occidente, in Giappone non si dice «ti amo» spesso. «Lo si mostra», mi spiega.

«Con un pasto preparato, con un ombrello condiviso sotto la pioggia, con il silenzio che non pesa». Mi colpisce questa idea: l’amore come atto, non come dichiarazione. Mentre esco, vedo un uomo che ripara una bicicletta davanti a un negozietto di fiori secchi. Gli chiedo se parla inglese. Scuote la testa, ma mi offre un fiore essiccato di yugao — il fiore della sera, effimero, che sboccia al tramonto. “Per ricordare che anche le cose fragili durano,” dice con la sua voce al mio traduttore automatico che mi consegna il suo augurio vocale. Lo infilo nel taccuino. Mi spingo fino a Koenji, un quartiere meno turistico, dove la vita scorre senza fretta.

Qui i negozi sono gestiti da famiglie da generazioni. In un izakaya minuscolo, senza insegna, mi siedo al bancone. Il proprietario, un uomo con le maniche arrotolate e tatuaggi tradizionali sulle braccia, mi serve un piatto di oden senza chiedermi nulla. Solo dopo un po’ mi chiede da dove vengo. Quando dico “Italia”, annuisce. “Ah, il paese del sole e del caos,” dice.

“Qui abbiamo la luna e l’ordine”

Beviamo un bicchiere di shochu insieme. Non parliamo molto. Ma il silenzio tra noi non è vuoto: è pieno di riconoscimento.

Fuori, un gruppo di anziani gioca a shogi su un tavolo di legno sotto un albero di ginkgo. Uno di loro mi fa cenno di avvicinarmi. Mi spiega le regole con gesti lenti, pazienti. Quando faccio una mossa sbagliata, sorride. “Non importa vincere,” dice. “Importa stare insieme.”

La frase mi risuona dentro come un koan. La sera mi spingo ad Asakusa, dove il tempio Senso-ji brilla sotto le luci soffuse. I turisti scattano foto, ma i locali si fermano davanti al chozuya, la fontana purificatrice, e si lavano le mani con gesti antichi. Osservo una nonna insegnare a un nipote come fare: prima la mano destra, poi la sinistra, poi la bocca – senza toccarla con il mestolo – infine il manico del mestolo. È un rito quotidiano, non un’esibizione. La spiritualità qui non è separata dalla vita: è la vita stessa. Mi siedo su una panchina vicino al fiume Sumida. Un uomo anziano mi si avvicina, mi offre una sigaretta e poi, senza chiedere nulla, si siede accanto a me. Restiamo in silenzio per dieci minuti. Poi mi dice:

“A volte, camminare da soli è il modo migliore per incontrare gli altri”

Sorride, si alza, e scompare tra le lanterne rosse. Più tardi, mentre passeggio lungo Nakamise-dori, ormai quasi deserta, vedo una giovane donna inginocchiata davanti a una bancarella chiusa. Sta sistemando con cura dei ventagli di carta, anche se nessuno li vedrà fino all’indomani. Le chiedo perché lo faccia ora. “Perché domani, chi passerà, deve trovare tutto al suo posto,” risponde. “Anche se non lo noterà, io lo so.”

C’è dignità in quel gesto. Una forma di etica invisibile. Torno a Yokohama con il treno notturno. La città dorme, ma Tokyo non dorme mai davvero. Si trasforma. Si rigenera. E io, flâneur moderno, non cerco risposte definitive, ma domande più profonde. In Giappone, le relazioni sociali non sono costruite su parole esplicite, ma su un tessuto invisibile di attenzione, rispetto, presenza silenziosa. Ogni gesto è un dialogo. Ogni sguardo, un saluto. Ogni pausa, una forma di intimità. Camminare per Tokyo non è solo muoversi nello spazio: è entrare in un sistema di relazioni sottili, antiche, quasi impercettibili. E forse, proprio per questo, così vere.

Trascorro così alcuni giorni nella capitale giapponese. Una sera, di ritorno da Tokyo, decido di non tornare subito a casa. Scendo alla stazione di Yokohama e mi fermo nella piazza antistante, dove il vento marino accarezza le luci dei lampioni. È lì che li vedo: un trio di musicisti — violino, contrabbasso e un pianoforte elettrico — sistemati in un angolo dell’ampio piazzale. La musica è struggente: una melodia che sembra uscita da un film di Ozu, lenta, malinconica, ma con una vena di dolcezza inattesa. Il violinista è un estroso musicista che segna in modo puntuale l’andamento della melodia; il contrabbassista, un ragazzo simpatico che sorride; il pianoforte elettrico è suonato da una ragazza giovane, che accompagna il ritmo musicale dettato dal violino con piccoli saltelli alla tastiera.

Mi siedo sui gradini di pietra, circondato da pendolari che rallentano il passo, da coppie che si fermano a guardare, da un cane legato a una panchina che sembra battere la coda a ritmo. Nessuno parla. Tutti ascoltano. Per dieci minuti, la piazza diventa un tempio laico, un luogo di comunione silenziosa. Quando finiscono, qualche discreto applauso. Molti si inchinano leggermente, e la folla si scioglie come nebbia al sole. Qualcosa è stato condiviso, senza parole, senza gesti espliciti. Solo suono, attenzione, presenza. La sera prima della partenza, torno in un piccolo bar di Yokohama dove sono stato più volte ad ascoltare musica jazz suonata da musicisti locali. Si chiama Tsuki no Ura — “Il retro della luna” — ed è nascosto in un vicolo stretto, tra un negozio di kimono usati e una lavanderia a gettoni. Il bancone è di legno scuro, le bottiglie sono etichettate a mano, e il proprietario, un anziano ex barman di navi da crociera, mi riconosce subito.

“Stasera c’è un trio di clarinetto,” mi dice, versandomi un bicchiere di umeshu senza che lo chieda. Mi siedo in un angolo. Dopo un po’, un gruppo di tre donne — forse amiche da sempre, forse colleghe, forse qualcosa di più indefinibile — mi fa cenno di raggiungerle. Una di loro, dopo aver chiacchierato con il proprietario, mi chiede se è vero che parto domani. Annuisco. Parliamo allora un po’ di viaggi, di solitudine, di ciò che si lascia e ciò che si porta via, con un bel sottofondo jazz che favorisce la comunicazione. Una di loro dice: «In Giappone, quando qualcuno parte, non gli auguriamo “buon viaggio”. Gli auguriamo di tornare».

Poi, con un gesto discreto, mi porge una piccola busta di carta washi, chiusa con un nastrino bianco. «È una tradizione antica», spiega la donna col foulard. «Non è un regalo. È un omamori fatto di soldi. Qualche moneta, qualche banconota. Non per il viaggio, ma per augurare il ritorno in Giappone. Perché tu abbia un motivo in più per tornare». Apro la busta più tardi, in albergo.

Dentro ci sono duemila yen, piegati con cura, e un bigliettino con scritto a mano: Mata oideTorna ancora. Il treno per l’aeroporto parte all’alba. Guardo fuori dal finestrino: Yokohama si dissolve nella foschia mattutina, e con essa si dissolve anche questa stagione di camminate, incontri, silenzi condivisi. Ma so che non è un addio. Perché in Giappone, anche il distacco è una forma di relazione. E il dono di quelle donne non è denaro: è un filo invisibile, teso tra qui e là, tra ora e un domani possibile.

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