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Pasolini, l’eredità “sbranata” dalla politica 50 anni dopo la morte

«L’Italia – al di fuori naturalmente dei tradizionali comunisti – è nel suo insieme ormai un paese spoliticizzato, un corpo morto i cui riflessi non sono che meccanici. L’Italia cioè non sta vivendo altro che un processo di adattamento alla propria degradazione. […] Tutti si sono adattati o attraverso il non voler accorgersi di niente o attraverso la più inerte sdrammatizzazione», scriveva dalle colonne del “Corriere della Sera” Pier Paolo Pasolini nel 1975.

Un genio conteso

Il 2 novembre di 50 anni fa moriva l’intellettuale che, come pochi, ha segnato gli anni della contestazione col suo stile tagliente, a volte irriverente e dissacrante, spesso in contrasto col pensiero comune del suo tempo. Pasolini è l’intellettuale più citato e meno letto d’Italia, ci ricorda Nicola Mirenzi in un prezioso saggio edito da Lindau “Pasolini contro Pasolini”. Quanto in vita era imprendibile e imprevedibile, altrettanto dopo la morte è stato ricoperto di banalità. La politica l’ha letteralmente sbranato. «La sinistra, la destra, i cattolici, gli estremisti, i giustizialisti, i complottisti, gli ambientalisti, i propagandisti della decrescita felice: ognuno ha preso il frammento che più gli faceva comodo e l’ha dilatato sino a farne l’intera immagine.

Il marketing culturale

Ne sono venute fuori tante figurine ottime per il marketing culturale, editoriale e politico, in cui l’opera di Pasolini si è trasformata in un souvenir» scrive Mirenzi. C’è il Pasolini anarchico, comunista o liberal. E c’è il Pasolini reazionario, passatista e difensore della tradizione. C’è il Pasolini contro l’aborto e c’è il Pasolini trasgressivo che vive una sessualità ossessiva e violenta. C’è il Pasolini dell’«io so ma non ho le prove», eroe di tutti i dietrologi. E c’è il Pasolini che demolisce gli appassionati di trame oscure: «Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità». Come nei supermercati, c’è un Pasolini per tutti i gusti. Perché ogni partito, gruppo, corrente, setta, tribù, ha costruito un Pasolini a sua immagine e somiglianza.

Le origini

Nato a Bologna, anche se la patria elettiva fu il Friuli della madre, Susanna Colussi, e precisamente Casarsa della Delizia, dove poi fu sepolto, «un luogo ideale per le mie estetizzanti, mistiche fantasie» in cui esalta l’amore «eccessivo» per la madre e cerca di allontanarsi dalla stirpe paterna dei Pasolini dall’Onda, stirpe cui è imparentato il nonno Argobasto. Quando arriva in Friuli è sottomesso dalla Natura forte che «non fa che violentare i sensi», di cui ogni immagine «viene gettata contro il cuore», ferendolo «con un dolore quasi fisico».

Il ricordo di Nigro

Nel ricordo di Salvatore Silvano Nigro, insigne italianista, emerge un Pasolini curioso: «Nel 1968 ero giovane e affascinato lettore delle poesie in dialetto friulano di Pasolini e della poesia civile delle “Ceneri di Gramsci”, vilipese dal mio professore all’Università che ci presentava l’autore come “l’apostolo doppio delle borgate romane: Pietro e Paolo”. Ma proprio nel 1968 ebbi la fortuna di conoscere di persona Pasolini. Ero ancora studente universitario e avevo vinto una borsa di studio della Fondazione Cini, a Venezia, per seguire un corso di approfondimento sulla letteratura europea. C’erano venti di protesta alla Mostra del Cinema di Venezia. Fra quelli che protestavano c’era Pasolini, che presentava il film “Teorema”. All’imbrunire i giovani correvano da una piazzetta all’altra della città. Avevano ottenuto che in queste piazzette venissero proiettati dei film direttamente presentati ai giovani contestatori dai registi. Pasolini fece proiettare “La ricotta”. Venne fischiato e quasi aggredito. Il film era stupendo. Ma non si prestava alle ideologie. Fui uno dei pochi che intervenni in difesa di Pasolini. L’indomani andai a Grado, invitato dal poeta Biagio Marin. Mi ritrovai a pranzo con i due poeti. E fu una giornata fortemente poetica, con Marin che ci illustrava la sua raccolta di conchiglie come fossero le bottiglie pittoriche di Giorgio Morandi. Rividi dopo vari anni Pasolini a Catania, dove insegnavo letteratura italiana all’Università. E ci frequentammo. Amava l’Etna e i villaggi sulle pendici e sulle coste. Paesaggi che entreranno nei suoi film più famosi. Pasolini stava girando I racconti di Canterbury. Io tenevo un corso sulla novellistica del Quattrocento. Invitai il regista alle mie lezioni per dialogare insieme a me con gli studenti pieni di entusiasmo».

“Bastian contrario”

Pasolini è stato molto cose: giornalista, regista, scrittore, poeta. Il Pasolini del grande schermo è il cineasta delle periferie, colui che si batte contro una falsa modernità che molti, invece, esaltavano in quanto portatrice di ricchezza e benessere, il “Bastian contrario” che si oppone alla vulgata corrente, lo strenuo avversario di alcune derive che adesso ci appaiono chiare nella loro drammaticità ma che all’epoca, all’inizio degli anni Sessanta, venivano considerate, invece, una mano santa per un Paese che usciva dalla miseria e dalla fame e si lasciava definitivamente alle spalle le ristrettezze del passato. Figura politicamente scorretta. Pur essendo dichiaratamente comunista, infatti, Pasolini visse con la sinistra italiana una lunga incomprensione, dovuta dapprima alla sua omosessualità, che gli costò l’espulsione dal partito per “indegnità” nell’ottobre del 1949, e poi all’audacia delle sue denunce, sempre troppo lungimiranti, troppo precise, troppo dettagliate, in grado di minare gli equilibri interni a una comunità che, purtroppo, almeno fino a Berlinguer, non ha avuto la forza di aprirsi fino in fondo al mondo esterno e di mettere in dubbio la ragion politica, basata, sia detto chiaramente, anche su un’elefantiaca dose di controverso realismo.

Un caso criminale?

A mezzo secolo dalla scomparsa siamo ancora fermi al tragico momento. È difficile parlare di Pasolini senza isterie: viene considerato un’icona, da omaggiare con devozione filiale o da profanare per liberarsi della sua presenza asfissiante. Il cinquantennale della sua morte è e sarà ricordato da numerosi volumi che indagano sul suo massacro (complice una verità giudiziaria parziale): a volte aggiungendo elementi all’ipotesi che sia stato vittima di un omicidio politico, più spesso ribadendo ricostruzioni sentite e risentite. Il rumore di fondo di tale produzione editoriale dà la sensazione che Pasolini sia diventato un caso criminale, in cui decisivo diventa scoprire il mandante del suo assassinio, come se ciò aggiungesse chissà cosa all’opera di un autore che ha dedicato la sua vita a scrivere poesie, romanzi, racconti, drammi, saggi, sceneggiature e a girare documentari e film. E invece è stato fissato nella memoria collettiva alla sua morte tragica, l’unica cosa che sembra ormai interessare questo Paese.

Che cosa resta di PPP

Cosa rimane oggi dell’intellettuale più amato e odiato del Novecento? Quale eredità ci ha lasciato «uno dei pochi poeti che nasce in un secolo» come gridò angosciato Alberto Moravia subito dopo il delitto di Ostia? E perché, a distanza di cinquant’anni dalla sua morte, PPP fa ancora così paura? Certamente di lui affascina la sua straordinaria ascesa sociale. Ottenuta, per di più, con i soli suoi mezzi. Con i suoi meriti individuali. Che erano poi la sua tenacia, il suo ingegno, la sua versatilità letteraria e non solo. In un paese come l’Italia, come poteva non colpire a fondo, le menti e i cuori, questa straordinaria carriera di un uomo che si è costruito da sé, da sé solo, parafrasando il suo amato Pascoli, senza raccomandazioni, senza appoggi, senza favori, ma contando unicamente sul suo talento e sulla sua caparbia forza di volontà? Senza dimenticare la lezione di Flaiano, però «Gli italiani perdonano tutto, i ladri, gli assassini, i delinquenti di tutti i generi, meno il successo. Il successo non lo perdonano mai a nessuno».

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