Ecco come religiosi, filosofi e leader politici hanno interpretato il sentimento che tiene insieme le comunità e spesso degenera in fanatismo
Quello della devozione è un tema che, quasi sempre, ci fa pensare ad un rapporto di tipo religioso, con una determinata divinità. Ognuno sceglie la propria, di divinità, e questo potrebbe indurci a pensare che quello della devozione sia un aspetto che riguarda praticamente solo la nostra sfera privata. Non è propriamente questa la miglior chiave di lettura.
La devozione, intesa come un legame profondo, affettivo e spesso ritualizzato verso una figura, un ideale, una causa o una divinità, è certamente un fenomeno ricco di implicazioni sociologiche, che ci permettono di andare oltre l’esperienza individuale per analizzare come si forma, si esprime, si trasmette e si trasforma all’interno di un contesto sociale. Si tratta infatti di un sentimento personale plasmato e sostenuto da strutture sociali quali istituzioni religiose, tradizioni familiari, pratiche collettive.
La devozione, insomma, è socialmente appresa e simbolicamente condivisa, come accade per esempio nel caso della devozione mariana nel cattolicesimo: non nasce solo da un’esperienza mistica individuale, ma è alimentata da pellegrinaggi, immagini sacre, feste liturgiche, racconti popolari.
Émile Durkheim avrebbe visto in questo un esempio di sacro collettivo: la devozione rafforza il legame sociale, perché ciò che si venera è spesso un simbolo dell’identità del gruppo. Esiste comunque un valore in sé della devozione a livello individuale, soprattutto in tema di costruzione dell’identità, perché offre un senso di scopo, di protezione, di significato e può anche fungere da risorsa psicologica in momenti di crisi, quali per esempio malattia, lutto, o qualsiasi incertezza. Tuttavia, in alcuni casi, può portare a forme di dipendenza emotiva o di rinuncia all’autonomia, tema questo analizzato da Max Weber nella sua teoria del carisma.
Proprio Weber è certamente il sociologo che ha analizzato in modo più approfondito e fondativo il tema della devozione nei suoi elementi sociologici. Il concetto è infatti centrale nella sua teoria del carisma e del potere legittimo. Per Weber, la devozione non è un sentimento privato, ma un fenomeno sociale strutturante, legato alla legittimazione del potere. Egli identifica tre tipi puri di autorità legittima: in prima istanza l’autorità tradizionale (basata sulla consuetudine, come accade nelle monarchie), quindi l’autorità legale-razionale (basata sulle regole, come accade per esempio nelle moderne democrazie) e infine l’autorità carismatica, e qui entra in gioco la devozione.
Val la pena ricordare che il carisma (dal greco charisma, “dono di grazia”) è la qualità straordinaria attribuita a un individuo, percepito come eroe, profeta, leader rivoluzionario o salvatore. Ma ciò che rende il carisma un fenomeno sociale, e non solo psicologico, è la devozione dei seguaci. Weber insiste sul fatto che il carisma non esiste senza la fede e la devozione dei seguaci. Il leader carismatico non è carismatico di per sé: lo diventa perché viene riconosciuto tale da una comunità.
La devozione dei seguaci è ciò che legittima il suo potere. Questa devozione è affettiva, irrazionale, totalizzante: non si basa su leggi né su tradizioni, ma su un legame personale e quasi mistico. Nella prospettiva weberiana, insomma, la devozione carismatica è caratterizzata inderogabilmente dall’irrazionalità, in quanto non si basa su contratti o norme, ma su un’adesione emotiva e fiduciaria. Ma ha anche la caratteristica della totalità, in quanto i seguaci si donano completamente al leader (come accade agli apostoli di Gesù, oppure ai rivoluzionari leninisti) e quella della trascendenza, considerato che il leader è visto come inviato da una forza superiore (Dio, storia, destino a seconda dei casi). Si tratta comunque di qualcosa che ha in sé i caratteri dell’instabilità. Il carisma, insomma, è fragile: se il leader fallisce, la devozione svanisce.
In questa prospettiva, la devozione svolge diverse funzioni nell’ordine sociale, a partire dall’integrazione, in quanto crea senso di appartenenza. Chi partecipa a un culto devoto si sente parte di una comunità. Inoltre, svolge una funzione di regolazione morale, in quanto la devozione spesso implica norme di comportamento – digiuno, preghiera o abnegazione che sia – contribuendo alla coesione etica del gruppo. Infine, da ricordare il tema della resistenza e identità: in contesti di oppressione o marginalità, la devozione può diventare un atto di resistenza simbolica (per esempio la devozione popolare in America Latina come forma di resistenza culturale).
Quello che appare certo in ogni caso è il rapporto che la devozione ha con il potere. La devozione non è neutra, anzi è spesso strumentalizzata da élite religiose o politiche. Le istituzioni possono promuovere certe figure devozionali per rafforzare il proprio controllo, come per esempio nel caso del ruolo dei santi nella Chiesa cattolica. Allo stesso tempo, la devozione popolare può sfuggire al controllo istituzionale: i fedeli possono interpretare e vivere la devozione in modi autonomi, creativi, persino sovversivi, come accade per alcuni culti sincretici in contesti coloniali.
La devozione, in ogni caso, è molto più di un sentimento religioso: è un fenomeno sociale fondamentale, che intreccia emozione, simbolo, potere e identità. Comprenderla sociologicamente significa riconoscere il suo ruolo nel tenere insieme (o talvolta dividere) le comunità, nel dare senso alle vite individuali e nel riflettere le tensioni della società in cui si manifesta. E proprio perché socialmente e culturalmente determinata, nell’attuale fase delle società occidentali, caratterizzate sempre più da un risvolto individualistico, la devozione si sposta sempre più nell’ambito privato, meno legata a rituali collettivi.
Si assiste a una sorta di spiritualità fai-da-te, dove la devozione è personalizzata, come nel caso di devozione a figure spirituali non convenzionali, maestri, guru, o anche personaggi laici come Mandela o Greta Thunberg. Si tratta in definitiva di una nuova devozione secolare: il fenomeno si estende oltre il religioso, perché si può essere devoti a un leader politico, a un’idea come libertà, oppure giustizia, a una squadra sportiva, a un brand. Questo mostra come la struttura emotiva della devozione sia trasferibile.
Non solo: al pari di tutte le cose che riguardano gli aspetti sociali, può avere anche rischi molto evidenti, a partire dal fanatismo. Quando la devozione diventa esclusiva e intollerante, può portare all’estremismo. In aggiunta, tende ad alimentare l’aspetto delle disuguaglianze: spesso le pratiche devozionali riflettono e rafforzano gerarchie di classe, etnia e genere, come accade con le donne come principali portatrici di devozione popolare.
Ma non è tutto: un altro pericolo è legato al fatto che la devozione può essere sfruttata, sia per fini economici (pensiamo al commercio di reliquie, ma anche ai biglietti per eventi religiosi) che per quelli politici, come accade nel caso di leader carismatici che si presentano come figure devozionali.
Se torniamo un attimo al concetto di carisma alla base della devozione, rimarchiamo che nell’ambito religioso, il carisma è permanente, spesso divinizzato, mentre in quello politico il carisma deve essere confermato continuamente, con risultati, vittorie, retorica.
In alcuni casi, la devozione politica assume caratteri quasi religiosi, con una sorta di sacralizzazione del leader, con ritratti ovunque, discorsi rituali, luoghi di pellegrinaggio ma anche utilizzando aspetti di sacralità nel linguaggio, con l’uso di termini come salvezza, redenzione, tradimento. Ci troviamo difronte in questi casi ad una vera e propria comunità di fedeli, gruppi che si identificano totalmente con il leader, escludendo il dissenso.
L’esempio sociologicamente più consistente su questo versante è certamente il caso della Corea del Nord (Repubblica Popolare Democratica di Corea, Rpdc), uno dei più estremi e affascinanti esempi al mondo di devozione politica trasformata in fenomeno quasi religioso. Qui, la devozione per i leader non è semplice sostegno politico: è un sistema di fede civile, strutturato, ritualizzato e trasmesso generazionalmente, che combina elementi di culto della personalità, mitologia statale e simbologia sacrale.
In Corea del Nord, la devozione è rivolta a una dinastia politica: Kim Il-sung (fondatore), Kim Jong-il (figlio), Kim Jong-un (nipote). Questo culto è stato costruito sistematicamente dallo Stato fin dagli anni ’40 e rappresenta una forma di religione politica o religione civile. I leader sono presentati come esseri straordinari, dotati di qualità sovrumane. Il loro pensiero (il Juche, l’ideologia del “self-reliance”) è considerato verità assoluta, quasi una rivelazione. La loro immagine è onnicompresente: ritratti nelle case, statue, monumenti, scuole, uffici.
La devozione trascende il politico e tocca il sacro, a partire dalle narrazioni sui luoghi di nascita (come accade per tutte le divinità). Kim Il-sung, nato sotto una stella luminosa, secondo la leggenda; di Kim Jong-il si dice sia nato sul monte Paektu, sacro nella mitologia coreana e che ci fu un’aurora boreale e un uccello celeste a salutare la sua nascita. Infine, Kim Jong-un, presentato come erede legittimo, con tratti somatici divini (leggi occhi a mandorla come il nonno).
I leader sono descritti come onnipresenti, onniscienti, onnipotenti e con qualità sovrumane. Kim Jong-il conosceva ogni granello di riso nel paese, Kim Il-sung ha scritto diecimila opere ed entrambi hanno visto il futuro, previsto le crisi, guidato il paese con saggezza infallibile. Questo ricorda il carisma profetico o divino dei fondatori religiosi. Infine, il tema della morte e dell’immortalità.
Kim Il-sung è morto nel 1994, ma è stato proclamato “Presidente Eterno della Repubblica”. Il suo corpo è imbalsamato e conservato nel Mausoleo Kumsusan, un luogo di pellegrinaggio obbligatorio. I cittadini devono inchinarsi davanti ai ritratti, anche dopo la morte, in una sorta di richiamo alla venerazione delle reliquie dei santi.









