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Gatto: «Facciamola finita con il reale. Mostri e Babbo Natale esistono»

Il filosofo dell’Università San Raffaele: «Siamo convinti che sia un fondamento immobile. Non lo è». Ne parla nel suo ultimo libro, ‘La realtà è sopravvalutata. Filosofia e multiverso’ (Castelvecchi)

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«Non è il sonno della ragione a generare mostri, ma la sua insonnia». Alfredo Gatto, giovane filosofo e docente di Storia delle idee all’Università San Raffaele di Milano, ribalta il famoso detto di Goya. Nel suo ultimo libro, La realtà è sopravvalutata. Filosofia e multiverso (Castelvecchi) intende mostrare che la ragione, quello che i Greci chiamavano logos, da sempre non fa altro che inventarsi delle storie, anche storie di mostri. Ma chi ci dice che quelle storie non siano reali? Chi ci legittima a pensare che è reale solo quello che vediamo e tocchiamo?

Professor Gatto, quindi nel suo libro sostiene che i mostri esistono?

«Sì, infatti l’ho scritto interagendo costantemente con i miei figli. Mi sono chiesto quanto l’idea che noi abbiamo della realtà sia in grado di descrivere l’universo dell’infanzia, un universo che per il bambino – ma direi anche per il genitore – è assolutamente reale, concreto, qualcosa che produce effetti, mentre i nostri discorsi da “grandi” tendono a negargli legittimità. Ma esiste tutto ciò che ha un potere causale e non si può negare che i mostri o Babbo Natale ce l’abbiano. Semplicemente ci liberiamo di queste cose assolutamente reali giudicandole infantili oppure chiamandole fantasie e favole».

È questo il significato del titolo del libro, “La realtà è sopravvalutata”?

«È un titolo volutamente ironico e provocatorio. Ho provato a mettere in questione il nostro presupposto rispetto a che cos’è la realtà»

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Quale presupposto?

«Quello per cui, come diceva il filosofo Nelson Goodman, la realtà è “il qualcosa di imperturbabile che sta sotto”. È una bellissima definizione che restituisce ciò che noi crediamo sia la realtà. Noi pensiamo che la realtà sia qualcosa di imperturbabile, di indipendente da tutto ciò che possiamo dire o pensare su di essa. Siamo convinti che sia un fondamento immobile che noi siamo semplicemente chiamati a descrivere in maniera adeguata».

Una bella definizione di realtà, quindi, ma completamente sbagliata?

«Una definizione che porta, appunto, ad una sopravvalutazione della realtà. Questo concetto di realtà è un prodotto storico che si è dimenticato di essere tale. I medievali, ad esempio, avevano un’idea di realtà completamente diversa».

Che idea avevano?

«Quella per cui la realtà è qualcosa di contingente, qualcosa che avrebbe potuto essere diverso da com’è. È solo nel moderno, con Cartesio, che la realtà diventa qualcosa di stabile e solido».

La realtà come noi la intendiamo è quindi una favola che abbiamo preso molto sul serio?

«La storia che ci siamo raccontati sulla realtà è affabulatoria, termine che casualmente contiene proprio la parola latina fabula. Questa storia ci incanta, spacciandosi per ciò che è immutabile. Così facendo, ci fa dimenticare la sua origine favolistica»

Insomma, ci sta dicendo che la realtà non esiste. È una prospettiva vagamente postmoderna.


«Tutto il contrario. La storicizzazione del reale non implica nessuna forma di relativismo o postmodernismo. Proprio il fatto che si sia imposta questa visione così sopravvaluta della realtà è testimonianza della forza di questo racconto, che ha rivestito la realtà di oggettività».

Non vede il rischio di attribuire il valore di realtà a ciò che è maggiormente in grado di imporsi e di cadere quindi in una concezione dispotica del reale?

«Rispondo con una contro-obiezione: tutte le altre prospettive, compresa quella che vuole la realtà come qualcosa di docile e imperturbabile, non danno voce esattamente allo stesso rischio? Semplicemente si dimenticano di esplicitarlo».

Si tratta quindi di svelare il meccanismo attraverso cui si impone un concetto di realtà piuttosto che un altro?

«Io provo a mostrare come funziona la macchina narrativa: l’idea di realtà che si impone è una narrazione che si fa mondo. Mostrando questo mostro che, certo, la narrazione più potente è quella che finisce per coincidere con il mondo, che la realtà è preda della narrazione più potente o di quella più persuasiva. Ma mostro anche che ci siamo dimenticati di avere naturalizzato quella idea di realtà che ha finito per imporsi e che quindi non è l’unica possibile»

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Nel sottotitolo del libro compare uno strano binomio, “filosofia e multiverso”

«Il termine “multiverso” viene introdotto da William James, che cercava proprio di mostrare come la realtà fosse qualcosa di plurale. Da lì provo a mostrare come il termine sia arrivato al nostro immaginario contemporaneo, ad esempio attraverso i fumetti, il cinema, la letteratura e anche attraverso la riflessione scientifica».

L’uso di questo termine in tutti questi ambiti che cosa ci mostra?

«In fondo ci mostra quello che già William James voleva mostrare, e cioè che la realtà, indipendentemente da tutte le storie che ci raccontiamo e ci siamo raccontati su di essa, è qualcosa di molteplice e composito, tutt’altro che un monolite».

Siamo noi a renderla un monolite?

«Noi cerchiamo ovviamente di rendere abitabile il mondo, togliendo alla realtà le sue crepe, levigandola, rendendola il meno porosa possibile per garantire una continuità alle nostre vite e alle nostre narrazioni, che hanno bisogno di capitoli, non di interruzioni del racconto. Ma probabilmente la realtà è qualcosa di molto più ampio di tutto quello che ci siamo raccontati».

A patto di sapere che anche questa è un’altra storia che ci raccontiamo

«Esatto. L’ultimo capitolo del libro è intitolato “Farla finita con il reale”. Non ho la pretesa che quello che dico sia la descrizione di che cos’è la realtà. Anche la mia è una macchinazione narrativa che però, a differenza delle altre, mentre racconta esplicita i presupposti del proprio racconto».

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