Home / Cultura / Mimì / La nostra Africa alta sui pedali

La nostra Africa alta sui pedali

“Il ciclismo è come il nuoto, uno sport completo, ed è come il pugilato, uno sport nobile. La bici è quello strumento che ti permette di andare al di là della sofferenza. Tant’è vero che oggi, qualsiasi cosa possa accadere, forte di quanto sofferto sulla bicicletta, per me non ci potrà mai essere un problema”.


Parole di Emilien Garcia che nel 1985 partecipa al Giro delle Regioni. Il primo, nel 1978, fu corso soltanto da italiani. Sette anni dopo, tra gli stranieri, unici corridori africani al via, anche sei senegalesi. Tra loro, proprio Emilien Garcia. Nella quinta tappa, da Cattolica a Marzabotto, il ciclista africano non solo non ha più energie, soffre anche il freddo e le montagne. Si stacca, si ritira, e aspetta il camion-scopa e ci sale, lui e la bici. Ma il direttore sportivo non lo vide più, non sapeva dove fosse e si allarma. Dice gli organizzatori che si era perduto, decolla un elicottero che sorvola la corsa, avanti e indietro, alla sua ricerca. È l’autista del camion-scopa ad avere l’idea giusta, comunica via radio che se per caso stanno cercando un corridore del Senegal, lo aveva tirato su lui. Fine dell’allarme, fine dell’emergenza. Quella tappa la vince Gianni Bugno.


È una delle 100 storie di ciclismo in Africa e di ciclisti africani che fanno parte di un libro freschissimo di stampa che ha il merito di avvicinarci in modo originale, curioso e sorprendente ad una “prima volta” assai significativa. Già: in occasione dei Mondiali di ciclismo in Rwanda, in programma a Kigali da oggi al 28 settembre, Ediciclo Editore pubblica “Strade nere” di Marco Pastonesi (160 pagine, 16 euro). Chapeau all’ex giornalista sportivo della Gazzetta dello Sport.


C’è di che perdersi tra le sue cento storie, curiose, inedite, dimenticate. Il progetto (perché questa è una idea, benvenuta in un mondo editoriale dove ci si adagia, specie nella letteratura sportiva, nel già visto, già sentito, già raccontato) nasce da un viaggio dell’autore nel 2006 in Burkina Faso per seguire il Tour du Faso. Da allora, Pastonesi ha continuato a coltivare storie e incontri, tra passato e presente. Dai campioni: Bottecchia che là correva per guadagnare, Bartali che là conquistò la prima vittoria internazionale, Coppi che là contrasse la malaria fatale fino ad Alessio Gasparini, primo corridore italiano ingaggiato da una squadra ruandese. Ma anche Dino Giuseppin, ex corridore diventato leggenda in Zambia; l’eritro Biniam Girmay, primo ciclista africano a vincere una classica europea di massimo livello, la Gand-Wevelgem; le banane di Idrissa Sow, la missione di Jock Boyer.


Le storie di Pastonesi attraversano epoche e continenti, passando dall’esplorazione all’agonismo, dal razzismo alla solidarietà, raccontate con uno sguardo umano e, talvolta, divertito. C’è Abdel-Kader Zaaf che al Tour de France 1950, invece dell’acqua, bevve cognac e si addormenta, c’è Ali Neffati, tunisino al via del Tour 1913 con il fez, ci sono le pedalate di Adrien Niyonshuti, simbolo della rinascita ciclistica ruandese. Il suo è un racconto corale che restituisce il volto inedito del ciclismo africano, dalle strade polverose del continente fino al palcoscenico dei Mondiali.


A proposito: ricordate Enrico Toti, il soldato che lanciò la stampella contro gli austriaci, morendo sull’Isonzo, nel 1916, in una delle tante battaglie della carneficina che fu la Prima guerra mondiale?


Nel 1913, con una bici speciale (a 26 anni aveva perso la gamba sinistra sotto un treno) pedalò da Roma Napoli in bici, da Napoli ad Alessandria d’Egitto su un piroscafo, in bici al Cairo, in bici risalendo il Nilo, finché in Sudan é fermato da gli inglesi colonialisti e obbligato a tornare indietro. Pastonesi racconta anche di Luigi Masetti, il poeta e l’anarchico della bicicletta, polesano, classe 1864. A 33 anni parte da Milano, giunge sul San Bernardo, qui gira la bici e prosegue fino a Brindisi, si imbarca per Alessandria d’Egitto, pedala fino a salire sulla piramide di Cheope, vi si ferma 40 secondi e torna a casa facendo una puntatina a Gerusalemme, Betlemme, Gerico e il Mar Morto.


Tour of Rwanda 2012. Pastonesi racconta di due ragazze quindicenni, Jeanne d’Arc Girubuntu e Benitha Uwamarayika, di Rwamagana, che partivano prima del gruppo e arrivavano dopo il gruppo. Ma arrivavano. Le uniche due, allora, donne in bicicletta. Una rarità, una stranezza. Una doppia singolarità. Un’autentica rivoluzione.


“Delle due ragazze, Jeanne d’Arc avrebbe dimostrato di essere la più talentuosa. Silenziosa, flemmatica, forse anche un po’ intimidita, sembrava caricarsi del peso ancestrale dell’intero patriarcato africano. Il Ruanda aveva maggioranza di popolazione femminile, ma il patriarcato si respirava, si vedeva, si dichiarava dovunque. Anche in bicicletta. Ma lei, se non ha trafitto e sconfitto, lo ha almeno scalfito. E, assieme alle due ragazze, in quel Tour of Rwanda del 2012 partiva anche un uomo, Ibrahim Kazoya, musulmano di Kigali, che aveva 61 anni, a quella latitudine l’età di un Matusalemme. Ibrahim partiva ma non arrivava, se non di sera, di notte, magari su un camion. Però la mattina seguente era al via. Lui e le due ragazze pedalavano su biciclette e indossavano abbigliamento italiani di seconda mano, recuperati, acquistati e spediti a sue spese da un anarchico cooperatore di Verona, Carlo Scandola. Queste alcune delle cento storie sulle strade nere d’Africa.
L’ultima è per il sognatore Nelson Mandela…

Tag:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *