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Dolce morte? Macché Meglio un funerale quando si è ancora vivi

Robert Redford nel film "La stangata"

Spegnersi nel sonno come Redford è crudele, ingiusto privare il defunto della sua “ultima festa”: Dolce morte? Meglio un funerale quando si è ancora vivi

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Si chiamava Robert Redford. Si è addormentato nel suo elegante pigiama una notte come tante altre, come faceva per abitudine da 89 anni, 32 mila 865 giorni. Solo che questa volta non si è svegliato. Non si sveglierà mai più. Per l’eternità. La cosa è enorme a dirla, figuriamoci a immaginarla. Non sappiamo se ha dato la buona notte ai suoi cari. Di sicuro, non gli ha dato l’addio. Non c’era motivo. Era abbastanza vecchio, ma non così vecchio da non desiderare che ci fosse un domani. Non sappiamo che pensieri gli siano passati per la testa. Se li ha avuti, sono stati gli ultimi. Pensieri futili, magari, che sarebbe stato bello mangiare una fragola al risveglio, o camminare a piedi nudi nel parco della sua casa nell’Utah. Come al cinema. Non si finisce mai di desiderare, anche quando si è vecchi, malati, stanchi e sordi. 

Si dice che morire nel sonno sia la più augurabile delle morti. La morte silenziosa. La buona morte. Te ne vai improvviso. Senza soffrire (sarà vero?). Senza sapere. Da un letto sgualcito da riordinare a una bara inesorabile da sigillare. Dal tuo presepe familiare al nulla cosmico. “Si è spento”. In qualche caso si aggiunge “serenamente”. “Circondato dall’affetto dei suoi cari”. Così si liquida la faccenda. La vera tumulazione non sta nei riti della sepoltura, ma in quelli della parola. Si parla del morto per liberarsi del morto, ovvero dell’orrore.

Esseri celebri non ti mette al riparo dallo scandalo della morte più assurda che c’è. Sean Connery, 90 anni, e Vittorio Gassman, 78, tra i tanti. Anche loro, andati nel sonno. Silenziosi. Il tumultuoso Stanley Kubrick ne aveva 70 di anni. Stroncato da un arresto cardiaco. Dormiva poco Stanley, ma non abbastanza poco da salvarsi da una morte così impietosa. Buona morte? Siamo sicuri? C’è qualcosa che racconta l’assurdità della vita più della morte improvvisa? Qualcosa di più malvagio? Vai a letto convinto di avere un domani. Convinto di essere qualcuno e, poche ore dopo, non sei più niente. Una bolla che fa plop. Forse, sei stato qualcosa e forse lo sarai, ma solo nella memoria ostinata di qualcuno. 

La morte improvvisa? Il più brutale e laconico trattato nichilista sull’insensatezza dell’essere al mondo. Se sei giovane, la crudeltà di questa fine è amplificata da quell’avere presumibile “tutta una vita davanti”. Davide Astori, 31 anni, si addormentò quella sera convinto di essere il capitano della Fiorentina, alla vigilia di una partita importante. Lo era, ma non si è mai più risvegliato. Mai più. Lucio Dalla non era così giovane, ma di testa era un bambino. Per lui la vita non aveva mai smesso di essere un gigantesco luna park: la sera prima aveva dato il meglio di sé al concerto di Montreux. Lui non è morto nel sonno, ma la mattina dopo, consumando una magnifica colazione. Da vero gaudente. Fulminato. Davanti alla sua torta preferita.

Walter Chiari invece morì di colpo, seduto, davanti alla televisione accesa che non la smetteva di straparlare in faccia a lui, geniale logorroico, definitivamente muto. Due giorni prima, un cardiologo famoso gli aveva detto, a Walter, depresso da morire: “Vivrai a lungo”.  Morire, di per sé, al netto del dolore immane della perdita, è una cosa mediocre, deludente, una gomma che si buca, una vena che si chiude, molecole che dopo una vita si scocciano di danzare insieme. Non c’è nulla di epico nel morire, se non l’ostinato rifiuto di dare l’addio a se stessi. Il corpo a corpo con il tuo corpo che se ne va. Redford, Connery e tutti gli altri, nemmeno questo gli è stato concesso. Ma la vera crudeltà, non solo delle morti improvvise, è in ciò che ti viene inflitto dopo, una volta che sei morto. 

Il funerale, così come è concepito nella civiltà occidentale, è un’aberrazione concettuale oltre che una crudeltà sentimentale. Con la scusa di rendere omaggio al defunto gli si infligge in realtà la punizione peggiore. Al di là della già penosa circostanza d’essere un pallido residuo chiuso in un’irrespirabile bara, il caro estinto ;verrà di fatto escluso dalla possibilità di partecipare alla sua festa più grande. Di ascoltare i testi più belli che mai gli siano stati dedicati, le parole più toccanti, i baci e le carezze più tenere che, da vivo, gli erano state lesinate se non addirittura negate. Fino a un giorno prima.

Presi da una commozione tardiva e irrefrenabile parenti e amici si avventano sul cadavere della persona amata, sfidando la vertigine, sbaciucchiandolo a più non posso, lasciando furtivi tra le sue dita rigide messaggi carichi di amore. Che nessuno leggerà mai. Il più frequente e stucchevole dei quali: “perdonami cara mamma, caro padre, caro nonno o nonna, per tutti i baci e le carezze che non ti ho dato”. In questa tardiva partita con il morto, si sprecano gli auspici di come sarà bello incontrarsi di nuovo un giorno, in qualche improbabile futuro e in un ancora più improbabile al di là. L’ennesimo appuntamento mancato. Il tutto in un clima di dolente e dovuta mestizia, davanti ai più per lo più compiaciuti di non essere loro nella parte del festeggiato. 

La soluzione? Quando hai superato gli 80 o la malattia avanza, il funerale ti va fatto da vivo. La famiglia deve trovare il coraggio visionario di celebrare una memoria, una nostalgia prima che diventi rimpianto. Sì. Una nostalgia in presenza, prima che diventi rimpianto in assenza. Concedersi il lusso poetico di dirci che qualcuno ci manca quando è ancora vivo tra noi. E dedicargli magari una serenata sotto il balcone. E torrenti di buon vino. Vicini a morire, non ci resta che simulare di essere morti dopo aver intensamente creduto di essere vivi. 
Fosse andata così a casa Redford, il magnifico Robert si sarebbe goduto da morituro, ma vivo, gli elogi sperticati di Barbra Streisand, Meryl Streep, Jane Fonda, Julianne Moore, Juliette Binoche, persino Stephen King, e se li sarebbe goduti assai. Allo stesso modo il New York Times, il coccodrillo con l’attore in vita che un giorno o una notte se ne sarebbe andato avendo chiaro nella memoria di cosa sarebbe stato il mondo alla sua scomparsa. Respiro comatoso nel caos sfuggente dei sogni.

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