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«La serie Tv su Enzo Tortora uno choc per svegliare le coscienze»

Dopo la proiezione a Venezia delle prime due puntate della serie tv “Portobello” di Marco Bellocchio dialoga con l’Altravoce Francesca Scopelliti, ex compagna del conduttore

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«Ogni tanto parlo con Enzo, e sembra che ora mi dica ‘Sono contento, grazie’. Perché finalmente dopo tanti tentativi, credo gli sia stato dato il giusto riconoscimento». Francesca Scopelliti, ex compagna di Enzo Tortora, all’indo – mani della proiezione a Venezia delle prime due puntate della serie tv ‘Portobello’ di Marco Bellocchio è ancora emozionata e scossa dalle immagini che l’hanno riportata ai momenti tragici del 1983, quando per il giornalista e conduttore tv iniziò l’incubo giudiziario diventato l’emblema della malagiustizia. Dopo oltre 40 anni, molti dei quali passati in una sorta di amnesia collettiva, quelle immagini sono come un brusco risveglio. «Siccome sono solita dire che Tortora rappresenta la nostra cattiva coscienza – afferma Scopelliti – e nel caso di Enzo l’hanno avuta i magistrati, la politica e i giornalisti, voglio sperare che questa sia stata l’occasione per pulirsela quella coscienza».

Bellocchio ha dichiarato di essere partito dalle lettere dal carcere di Enzo Tortora per imbastire la trama della serie. È stata lei stessa, con il libro “Lettere a Francesca”, a consegnare alla memoria degli italiani questo scambio epistolare che è un pugno nello stomaco.

«Quando sono state pubblicate le lettere già pensavo potessero diventare un film. E tra i vari registi, quello che aveva di più il fascino di una cinematografia-verità era proprio Bellocchio. Quindi pur non conoscendolo gli mandai una copia del libro, lui cortesemente mi rispose dicendo che condivideva la mia battaglia ma che in quel momento non era nelle sue corde. Dopo cinque anni, un giorno squilla il telefono ed era lui. Da lì è iniziata la storia».

Cosa ha provato ripercorrendo la vicenda?

«Tante emozioni forti, per la sorprendente trasposizione della verità storica. Lo stesso Fabrizio Gifuni che fisicamente non somiglia ad Enzo, ha saputo inglobare e fare suo lo spirito tortoriano, a partire da quando fa le scene di Portobello, dove emergono la giocosità di Enzo, ma anche il suo essere un uomo perbene. Una interpretazione perfetta, come anche quella dell’altro Tortora, quello dell’angoscia, dell’amarezza, della incredulità e del dolore di quando viene arrestato. Anche nella semplice espressione del viso, Gifuni riesce a far trasparire il sentimento che Enzo ha provato. Ripercorrere la tragedia mi ha fatto male, soprattutto nelle scene n carcere, quando gli danno le coperte per farsi il letto, quando i quattro compagni di cella lo invitano a tavola e lui dice di no, raccolto in posizione quasi fetale nella sua branda. E poi la scena in cui mentre tutti dormono arrivano le guardie penitenziarie che con un ferro sbattono sulle grate, svegliando tutti senza una ragione. Ecco, viene raccontato anche cosa è il carcere, e questo non fa altro che dare alla storia una verità quasi da documentario».

Tortora ha combattuto da solo quei magistrati ‘prigionieri’ di teoremi giudiziari, portando alla ribalta il grande tema della responsabilità civile delle toghe. Guardando le cifre esigue di magistrati che dalla legge Vassalli in poi hanno pagato per i loro errori, è una battaglia persa?

«Forse è una battaglia non completamente vinta, ma non bisogna mai arrendersi. Tra l’altro gli insegnamenti dei Radicali lo testimoniano: Marco Pannella diceva ‘Faccio quel che devo, accada quel che può’. Non bisogna mollare mai».

Nei pensieri di ‘un povero detenuto’, citando una delle lettere, ce n’è anche per certa stampa pronta a sparare sugli innocenti. La macchina del fango continua. Lui direbbe che sono ‘burattini che s’illudono di non avere fili’?

«Quello della gogna mediatica è un tema che rimane sempre. Credo però che con Enzo si sia raggiunto l’apice. Basta leggere come le firme che avevano una certa popolarità all’epoca siano stati l’emblema di questo giornalismo antropofago che gli ha fatto molto male e che ha contribuito alla nascita di quel tumore che lo ha ucciso. Lo voglio dire, e mi fa piacere lo abbia detto anche Bellocchio in un’intervista. Forse non è provato scientificamente, ma secondo me è assolutamente vero che l’inchiesta giudiziaria gli ha innescato quella famosa ‘bomba al cobalto’ che gli era scoppiata dentro e che lui dichiarò appena entrò in galera. Voglio sperare che vedendo quelle scene quei giornalisti abbiano capito che non si può uccidere una persona sul nulla».

Sebbene ci siano state proposte e discussioni in Parlamento, inclusa l’approvazione di un testo base in Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, la Giornata nazionale delle vittime di errori giudiziari non è ancora stata ufficialmente istituita. Come giudica l’impasse politica su un tema così importante?

«La giudico malissimo. Questo è un Paese che non rinuncia a dedicare una giornata a chicchessia. Perché non dedicarne una alle vittime della giustizia? Santalucia, all’epoca presidente dell’Anm, disse che una giornata così disonorerebbe i magistrati quando loro si sono già disonorati da soli, con le percentuali di errori giudiziari che ci sono. L’atteggiamento delle toghe ormai è consueto, dicono no a qualsiasi piccolo intervento che li riguarda. Mi ha addolorato molto la dichiarazione della premier Meloni che a un certo punto, riguardo la istituzione della Giornata nazionale in questione – che ha generato molte polemiche – ha detto ‘Per adesso passiamoci sopra, poi si vedrà’. Naturalmente ho intenzione di proseguire anche in questa battaglia puntando ad una sua celere calendarizzazione»

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