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Schiaparelli, il cannocchiale dei deputati per le cose immense e adorabili del cielo

Quando nell’ottobre del 1900 il settimanale “Domenica del Corriere” gli dedicò una delle storiche copertine, firmate da Achille Beltrame, Giovanni Virgilio Schiaparelli si apprestava a lasciare l’Osservatorio Astronomico di Brera, dove quarant’anni prima era approdato, a soli 27 anni. Beltrame lo ritrasse intento a osservare il cielo, attraverso un gigantesco telescopio. Riassunse così il contributo di questo professore alla scienza italiana. Scopritore nell’aprile 1861 dell’asteroide Esperia, il giovane astronomo divenne, nell’agosto 1862, direttore dell’Osservatorio. Alcuni mesi dopo, chiese un finanziamento per dotare la struttura del Telescopio rifrattore Merz. Era da ricostruire anche la cupola. Fu ultimata 11 anni dopo dando il via a un’attività regolare e ininterrotta di studio e di scoperte.

È stato Schiaparelli, nell’autunno del 1900, a chiedere di essere messo a riposo. Stanco? Tutt’altro. Cominciava però ad avere disturbi alla vista e preferì cedere il passo al collega e collaboratore Giovanni Celoria, che fu nominato con decreto reale. L’eredità lasciata da Giovanni Schiaparelli fu immensa. Come inesauribile il desiderio di occuparsi soltanto degli astri. L’amico Quintino Sella, conosciuto alla facoltà d’ingegneria idraulica di Torino, raccontò che di fronte a ogni offerta di lavoro Schiaparelli rispondeva: “Voglio studiare astronomia!” E gli riuscì. Una di quelle fortune che capitano a chi segue una vocazione, un sogno. Fu una sfida, maturata silenziosamente durante una passeggiata notturna, con il padre Antonino che, tenendolo in braccio, gli svelò per la prima volta il cielo: “Da bimbo di quattro anni, imparai a conoscere le Pleiadi, il Carro grande, e la Via Lattea. D’un tratto si spiccò una stella cadente; poi un’altra; poi un’altra. Alla mia domanda cosa fossero, egli rispose che queste cose le sapeva soltanto Domeneddio. Io tacqui ed un confuso sentimento di cose immense e di cose adorabili si impadronì di me”. Così quel bambino nato a Savigliano, in provincia di Cuneo, il 14 marzo 1835 cominciò presto a coltivare quella passione per le “cose immense e adorabili” custodite nell’immensità del cielo. Primogenito di nove figli, dopo il liceo fu indirizzato dal padre a Torino per frequentare l’Università di Ingegneria idraulica.

A 19 anni era già laureato (ingegnere e architetto), ma Giovanni non amava quel lavoro. Cominciò a insegnare matematica in un Ginnasio torinese. Fece amicizia con Sella, appassionato di geologia, e con un altro grande cultore di astronomia, il parroco di S. Maria della Pieve in Savigliano, don Paolo Dovo. Fu lui che gli insegnò a perlustrare il cielo con il telescopio. Schiaparelli cominciò a studiare le lingue antiche, comprese la babilonese e la lingua tedesca, con un progetto chiaro in mente: trasferirsi in Germania e frequentare una delle migliori scuole d’astronomia d’Europa. Nel 1856, venne a conoscenza dell’imminente passaggio di un astro, evento che non avveniva da 300 anni. Cominciò a studiarne il percorso e le traiettorie. Mise tutto per iscritto: pagine e pagine di analisi e considerazioni personali, in italiano e nelle altre lingue che conosceva. Nel 1857 riuscì a ottenere una borsa di studio a Berlino e cominciò a studiare seriamente l’astronomia all’Osservatorio di Berlino e a perfezionarsi all’Osservatorio imperiale russo di Pulkova a San Pietroburgo. Al suo rientro in Italia fu assunto all’Osservatorio di Brera. 

Dopo la scoperta di Esperia, si concentrò sullo studio delle comete, scoprendo la connessione fra comete e stelle cadenti (nel 1867 pubblicò “Note e riflessioni intorno alla teoria astronomica delle stelle cadenti”). Riuscì a ottenere dal Parlamento il finanziamento per acquistare il celebre telescopio. Fu l’amico Sella, con una lettera, a informarlo della buona notizia: “Caro Amico eccoti il risultato della votazione a scrutinio segreto. Favorevoli 192 / Contrari 37 / Votanti 229. La votazione è veramente splendida e negli uffici e nella Camera si disse esplicitamente che si dava il cannocchiale perché vi era un astronomo che lo valeva. La stima che si ha di te ci entrò per moltissimo nel voto. Puoi quindi essere lieto e fiero della dimostrazione solenne tanto che non ne ricordo l’eguale, che ti diede la tua patria”.

Arrivò per lui una serie di incarichi: fu nominato membro della Commissione per il riordino degli osservatori italiani; gli fu affidata dal ministro della Pubblica Istruzione la riorganizzazione dell’osservatorio di Palermo e fu nominato professore straordinario di Geodesia presso il R. Istituto Tecnico Superiore di Milano. Nella notte del 27 novembre 1872 osservò una straordinaria pioggia di stelle cadenti. Schiaparelli studiò e spiegò quel fenomeno presentando la propria relazione all’Istituto Lombardo. Quell’analisi colpì soprattutto l’Accademia di Londra che lo insignì con una medaglia d’oro. 

Medaglie, onorificenze, nomine…non influivano sulla sua vita. Il suo unico interesse era l’astronomia. Una sola eccezione: la famiglia. Nel 1865 aveva sposato Maria Comotti, figlia di un ingegnere, dalla quale ebbe cinque figli. Nel tempo libero amava ricordare a memoria le opere classiche studiate (italiane, latine e greche). Incredibile memoria e sconcertante resistenza fisica. Uomo di poche parole fu, nell’ambito dell’astronomia, Schiaparelli fu un abile osservatore con grande capacità esplicativa. Il 23 agosto 1877, per esempio, descrisse una scoperta fatta casualmente, mentre osservava le stelle doppie e le fasi dell’eclissi totale di Luna in corso quella notte. Puntò il telescopio su un pianeta, Marte, e scrisse “Marte giallo, si vede bene calotta australe”. In seguito il professore ne studiò la topografia e la meteorologia, incluse le osservazioni sui cosiddetti “canali”. Scrisse “Il pianeta Marte” (1893), “La vita sul pianeta Marte” (1895) e “Il pianeta Marte” (1909) e un articolo per la rivista “Natura e Arte”.

Qui si lasciò guidare più dall’entusiasmo che dall’analisi scientifica. Non ne fece mistero: chiuse il suo intervento con una frase del filosofo latino Seneca: “una volta all’anno è possibile dire sciocchezze”. Ipotizzò che ci fosse vita su Marte, alzando un polverone di polemiche fra scienziati e cattolici. Si difese citando San Tommaso d’Aquino, unico teologo cristiano a immaginare l’esistenza di mondi simili a quello terrestre: “Il creato, che contempla l’astronomo, non è un semplice ammasso di materia luminosa; è un prodigioso organismo, in cui, dove cessa l’incandescenza della materia, incomincia la vita…possiamo argomentarne la generale esistenza negli altri. “Tra i maggiori contributi dello scienziato ci sono le misurazioni micrometriche e il calcolo delle orbite di sistemi stellari binari; gli studi sulle comete, gli studi sull’astronomia antica, soprattutto babilonese e greca. E, come attestano i manoscritti da lui lasciati a Brera, esistono studi sui pianeti Saturno e Giove, sulle orbite di Mercurio e Venere, rivoluzionando le precedenti teorie. Dal 1885 al 1889 fu membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione e, come previsto dallo Statuto Albertino, poiché membro da almeno sette anni della Regia Accademia delle scienze, il 26 gennaio 1889 fu nominato senatore del Regno, (allora carica non elettiva). Non partecipò mai ad alcuna seduta.

Nel 1900 si ritirò a vita privata. Scrisse la storia dell’Astronomia. Poi il 22 giugno 1910 fu colpito da trombosi e il 4 luglio morì nella sua abitazione milanese. Avrebbe voluto funerali semplici, ma le sue volontà non furono rispettate: il Comune di Milano scelse un rito solenne. La sua grandezza non si misurava così. Lo ricordò un articolo pubblicato dall’Illustrazione Italiana: “Egli fu grande perché in tutta la sua vita affermò sé stesso con le qualità fondamentali che fanno, sole, grande l’uomo: la tenacia nel volere, la resistenza al lavoro, la febbre di sapere, la modestia della vita, l’avversione a tutte le forme della vanità e della popolarità”. 

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