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La filosofia, compagna inquieta dei Papi

Quando la fede pensa pone domande. Domande che nascono dal dubbio, talvolta da una difficile scommessa, ma anche dall’amore e dal desiderio di conoscere meglio ciò che si ama. Interrogare, quindi, non è estraneo alla natura della fede, anzi: una fede che non pensasse, che non fosse attraversata dal dubbio, che non ponesse domande non sarebbe neppure fede. La fede che pensa non interroga solo i suoi contenuti, ma scruta i problemi della società, i conflitti della storia, i drammi dell’attualità. Una fede che non si lasciasse sfidare dalla realtà sarebbe ideologia, dottrina disincarnata. Ho cercato di riassumere e parafrasare, una delle intuizioni che Paolo VI espresse con ben altra profondità. E con altrettanta libertà oso una domanda che si affaccia, discreta ma necessaria: che posto ha la filosofia nel pensiero dei papi? Non si tratta di una curiosità irriverente, né di un interrogativo ingenuo.

E’ una domanda consapevole dei suoi limiti: troppo grande per trovare risposte in un articolo e neppure in ponderosi saggi. Ma è anche un punto di partenza possibile per un percorso parziale, incentrato su un interrogativo ancora più complesso: in che modo il magistero si è lasciato attraversare, nel tempo, dalle domande che abitano il cuore dell’uomo? La filosofia non è mai stata estranea alla Chiesa. Nei testi, nei gesti dei pontefici ha sempre risuonato una tensione pensante, un ascolto profondo delle domande e non solo su quelle ultime, per restare su una soglia, dove la verità si fa invocazione. La filosofia accompagna, orienta, custodisce, protegge lo spazio della domanda. E, talvolta, apre varchi. È in questo intreccio – tra ascolto e responsabilità, tra parola e silenzio, – che la filosofia diventa un modo per coniugare fede e ragione, proprio nel tempo in cui entrambe sembrano incrinarsi. Per Giovanni Paolo II, essa è il luogo della dignità della persona; per Benedetto XVI, è il linguaggio del logos; per Francesco, è la grammatica della cura e della fraternità. Non stupisce che nei loro scritti, nei discorsi, affiorino – talvolta come riferimenti espliciti, talvolta come presenze sotterranee – figure come Agostino, Tommaso, Bonaventura, Scheler, Rosmini, Blondel, Maritain, Guardini, Levinas. La filosofia è una compagna inquieta lungo sentieri che custodiscono domande radicali. Che cos’è l’uomo? Come restare umani nel tempo della tecnica? Quale verità serve davvero alla libertà? Il pontificato di Paolo VI segna un punto di svolta nel modo in cui la Chiesa si confronta con la modernità. In Ecclesiam Suam (1964), vera architettura teologica del dialogo, si afferma con chiarezza che la verità non si impone per forza, ma si comunica per attrazione. Il dialogo diventa, in questa visione, un atto eminentemente teologico: espressione della carità intellettuale, fondata sulla rivelazione di un Dio che parla e ascolta. L’altro non è un avversario da confutare, ma un volto da riconoscere.

Questa postura non è solo frutto del clima conciliare, ma nasce da un’antropologia teologica precisa: l’uomo, creato a immagine di Dio, è essere di relazione, capace di parola, di libertà, di apertura al mistero. In Populorum Progressio (1967), Paolo VI porta questa visione dentro la storia: la questione sociale diventa teologica. Lo sviluppo autentico è quello “di ogni uomo e di tutto l’uomo”, e richiede una cultura dell’integralità, che tenga insieme economia, giustizia, trascendenza. Qui si riconosce l’eco profonda del personalismo cristiano di Mounier e della teologia della grazia di de Lubac. Il pensiero di Montini non è episodico né ornamentale: è una visione che attraversa l’intero magistero. Dietro il tono pastorale, spesso sommesso, vibra una convinzione ferma: la Chiesa non può evangelizzare il mondo moderno senza condividere le sue inquietudini, senza farsi carico della sua fame di senso e di dignità. Alla filosofia, Paolo VI, sembrerebbe, aver affidato il compito alto di mediare, illuminare, connettere: tra fede e cultura, tra Chiesa e storia, tra verità e libertà. Karol Wojtyła non fu soltanto un teologo, ma un filosofo di formazione e di vocazione, capace di elaborare una visione sistematica dell’umano nel cuore della crisi europea del Novecento. La sua filosofia nasce all’incrocio tra la fenomenologia di Max Scheler – da cui eredita l’attenzione all’esperienza vissuta e alla dignità della persona – e il tomismo riletto in chiave esistenziale.

La sua opera maggiore, Persona e atto, 1969, sviluppa una concezione dell’uomo come soggetto libero, capace di autodeterminarsi nell’agire. L’atto umano non è solo gesto morale, ma luogo ontologico: l’uomo diventa se stesso nel dono di sé. Questo personalismo “drammatico” – così definito da molti interpreti – si radica nella tradizione personalista cristiana: Emmanuel Mounier, Gabriel Marcel, Jacques Maritain. Una costellazione di pensiero in cui coscienza, libertà e relazione non sono attributi secondari, ma strutture portanti dell’essere. In Wojtyła, la persona non è un individuo isolato, ma un essere-nel-mondo, chiamato alla comunione e al compimento. Questa antropologia attraversa tutto il suo magistero. In Redemptor hominis (1979), l’uomo è posto al centro dell’annuncio cristiano; in Fides et ratio (1998), ragione e fede si riconoscono come alleate in una ricerca comune della verità. La filosofia, qui, ritrova la sua vocazione metafisica: superare la frammentazione e osare la domanda ultima. La sfida che Giovanni Paolo II lancia al pensiero contemporaneo non è polemica, ma profonda: ritrovare nel volto della persona il principio di ogni verità. Non per opporsi alla modernità, ma per redimerne le ferite. Joseph Ratzinger è il pensatore del logos: parola che genera, ragione che illumina, verità che interpella.

La sua formazione si radica nelle grandi scuole teologiche tedesche del secondo dopoguerra, ma il suo pensiero affonda nella tradizione più profonda della Chiesa: Agostino e Bonaventura, in particolare, sono le sue guide nell’elaborare una teologia capace di parlare alla modernità senza cedere alla sua frammentazione. Il punto di partenza è una diagnosi netta: l’Occidente ha reciso il legame tra verità e significato. La ragione, ridotta a tecnica e funzionalità, ha smarrito la propria apertura al mistero. Ratzinger rifiuta l’alternativa tra fede e ragione: al contrario, vede nella fede il compimento più alto della ragione stessa, quando questa non si chiude nel calcolo ma si apre alla verità che chiama. In questa prospettiva, il logos non è soltanto principio razionale, ma principio personale: Dio come razionalità amante. Da qui nasce la compatibilità tra fede cristiana e universalità della ragione umana. Celebre – e controverso – è il discorso di Ratisbona (2006), in cui Ratzinger denuncia la “deellenizzazione” del cristianesimo e invita a ritrovare la grande sintesi greco-biblica: la ragione che non si piega all’utile, ma si apre all’essere, alla giustizia, alla trascendenza. Il suo pensiero dialoga in profondità con la filosofia contemporanea. Celebre il suo dialogo con Habermas, con il quale condivide la necessità di uno “spazio pubblico della ragione”, purché radicato in un fondamento etico non negoziabile.

La proposta di Ratzinger è quella di una “ragione allargata”, capace di accogliere la domanda ultima e non solo la soluzione immediata. Se Giovanni Paolo II ha posto la persona al centro, Ratzinger pone al centro il logos: quella struttura razionale e relazionale che rende possibile ogni comunione, ogni verità, ogni giustizia. La filosofia non è per lui un’alleata esterna, ma un organo interno della fede, un’estensione del pensiero credente. È la via attraverso cui il Verbo si rende ascoltabile, pensabile, amabile. In Ratzinger, pensare è già pregare: perché verità e carità non si lasciano separare. Con Francesco, la filosofia non compare come sistema, ma come stile di pensiero incarnato. Jorge Mario Bergoglio non è un filosofo accademico, né costruisce trattati: e tuttavia, nei suoi testi e nel suo magistero, si riconosce una coerenza intellettuale profonda, maturata in anni di studio, di discernimento, di vita pastorale.La sua formazione è marcata dall’incontro con Romano Guardini, autore che egli ha citato esplicitamente in più occasioni. Dalla lettura di L’opposizione polare e di altre opere, Bergoglio ricava una visione della realtà come insieme di tensioni vive: non da risolvere, ma da abitare. Da Guardini deriva anche lo stile del pensiero: sobrio, concreto, capace di tenere insieme spirito e storia. Altrettanto decisiva è l’influenza della “teologia del popolo”, sviluppatasi negli anni del post-concilio in ambito gesuitico e cattolico latino-americano. A differenza della teologia della liberazione classica, questa corrente non parte dal conflitto sociale, ma dalla fede vissuta del popolo come soggetto storico e teologico. Autori come Lucio Gera, Rafael Tello e Juan Carlos Scannone – quest’ultimo direttamente legato alla formazione di Bergoglio – hanno elaborato una visione dell’umano fondata sulla memoria, la solidarietà, la trascendenza quotidiana. Queste fonti confluiscono in una filosofia della cura, che attraversa le grandi encicliche del pontificato: Evangelii gaudium (2013), Laudato si’ (2015), Fratelli tutti (2020). In esse, l’ontologia cede il passo a un’etica relazionale: l’essere si manifesta nella prossimità, nel legame, nella responsabilità. La fraternità non è un ideale astratto, ma una forma concreta della giustizia cristiana, una risposta alla solitudine dell’uomo contemporaneo. Francesco non separa pensiero e azione: la sua filosofia si esprime nei gesti, nelle immagini, nella pastorale. Frasi come “il tempo è superiore allo spazio”, “la realtà è più importante dell’idea”, “l’unità prevale sul conflitto” non sono semplici slogan: sono condensazioni di un pensiero spirituale radicato nella tradizione ignaziana del discernimento. In Francesco, la filosofia diventa pratica spirituale: è pedagogia del limite, arte dell’incontro, grammatica dell’umano. Non offre definizioni, ma apre orizzonti. Non costruisce sistemi, ma custodisce relazioni. E nel volto del povero, intravede la verità che interroga.

Eletto l’8 maggio 2025, Leone XIV ha assunto il pontificato con uno stile sobrio. Primo papa statunitense e appartenente all’Ordine di Sant’Agostino, ha alle spalle una lunga esperienza missionaria e formativa. Le sue prime parole pubbliche – “La pace sia con voi” – e l’essenzialità dei suoi gesti sembrano indicare una linea di continuità pastorale, centrata sull’ascolto, sull’unità e sul servizio. È ancora troppo presto per delineare un profilo “filosofico del suo pontificato”. La sobrietà delle parole, il riferimento discreto a sant’Agostino, la fiducia nella grazia come principio di libertà sembrano indicare un cammino di pensiero profondo.
A uno sguardo attento, si direbbe che, negli ultimi decenni, il pensiero abbia abitato il magistero in forme nuove. Non come costruzione di sistemi, ma come gesto di discernimento, come tensione verso la verità, come disponibilità a sostare nella complessità del tempo, senza semplificarla, di interrogare la verità, di custodire le domande là dove le risposte rischiano di irrigidirsi. Sant’Agostino diceva che in interiore homine habitat veritas. E’ in quel luogo interiore, dove continua ad abitare la nostra insonne ricerca, che la fede incontra la filosofia non come ancella o come rivale, ma come compagna inquieta di un cammino condiviso. Là dove il pensiero non rinuncia al mistero e la fede non teme le domande.

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