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Un Papa e 4 testate per la stessa intervista: è la Rai degli sprechi

Già 20 inviati della tv pubblica prenotati per i viaggi di Meloni nell’Indo-Pacifico. Perché? La risposta è la stessa: nessuno vuole cambiare

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È accaduto di nuovo: quattro microfoni, quattro testate Rai — Tg1, Tg2, Tg3, Rainews — e un solo interlocutore. Una storia che si ripete. Questa volta ad Albano, sede del Tg Lazio, ai Castelli Romani, per il passaggio del Papa Leone XIV. Se non fosse per le distanze, sarebbe la copia carbone del pasticcio australiano al G20 di Brisbane, quando partirono in 13 tra giornalisti e operatori per raccogliere dall’allora premier Matteo Renzi un’unica, identica dichiarazione. La stessa che l’Ansa avrebbe diffuso quasi in tempo reale.

La differenza? Nessuna. O meglio, sì: l’entità dello spreco. Quella trasferta oltre oceano per mandare in onda lo stesso servizio e le stesse immagini su cinque diversi canali costò 60 mila euro. A un unico editore. Un editore pubblico. Noi.

Sono passati dieci anni, ma quella lezione non è servita a nulla. L’ex dg Luigi Gubitosi, ex commissario straordinario di Alitalia, uno che dunque di sprechi se ne intendeva, osservò: «Perché servono cinque giornalisti Rai e otto tecnici per seguire una sola dichiarazione di Renzi?». Domanda che oggi, in epoca di crisi industriale, piattaforme OTT e budget sotto pressione, suona ancora più ridicola.

La risposta è la stessa di allora: nessuno vuole cambiare davvero. Gli va bene così. Ricordate il piano delle “Newsroom”? Ideate da Nino Rizzo Nervo e mai attuate dall’ex direttore editoriale per l’offerta informativa Carlo Verdelli, che fu silurato per molto meno. Quell’idea di ricorrere alle sinergie per evitare l’inutile moltiplicazione di microfoni fu approvata dal Consiglio d’amministrazione. A favore si espresse anche la Commissione bicamerale di vigilanza Rai. Non bastò. Quei tentativi di razionalizzazione furono respinti nei fatti. Nonostante le interrogazioni e gli appelli dell’ex deputato Pd/IV Michele Anzaldi, ed ex segretario della Commissione di vigilanza Rai. A vincere furono le baronie, gli interessi interni, spesso spacciati per pluralismo dell’informazione.

E oggi? Ogni testata continua a gestirsi come un feudo, con i propri cavalieri, truppe e spese. Risultato: servizi in fotocopia. Per i prossimi viaggi a fine agosto di Giorgia Meloni nell’Indo-Pacifico si sarebbero già prenotati una ventina di inviati. E la Vigilanza? Sparita. Evaporata in attesa che il CdA nomini l’unica candidata alla presidenza, Simona Agnes (FI), la quale non sembra avere alcuna fretta. Per l’investitura servono i due terzi dei voti. Maggioranza e opposizione dovrebbero trovare la quadra, ma non ci riescono e si va avanti come se niente fosse. È la Rai, bellezza!

Domani — alleluia! — la Vigilanza dovrebbe tornare a riunirsi in seduta plenaria: all’ordine del giorno c’è il parere vincolante per la nomina del presidente del CdA Rai. Dalla riforma-Renzi, quella nomina strategica è competenza del governo. Non del Parlamento. Nel marasma normativo, varie proposte di riforma Rai sono in rampa di lancio. Una per ogni corrente (o potere): Gasparri (FI) vuole riportare in vita il direttore generale e rendere l’elezione del presidente un gioco da ragazzi (maggioranza semplice). Nicita (Pd) propone, come già fece Gentiloni, la Fondazione, per staccare la Rai dallo Stato e collocarla in un limbo semi-indipendente. Interessante sulla carta, fragile nella pratica. Una trappola, secondo alcuni, che aprirebbe la strada alle privatizzazioni.

Il Pd, per coerenza o protesta, non partecipa: Elly Schlein ha scelto l’Aventino. Il maggior partito d’opposizione non ha alcun rappresentante nel CdA. La Lega punta al “sistema duale”, all’abolizione dell’AD (con buona pace di Giampaolo Rossi) e a una presunta valorizzazione delle partecipate Rai, cioè privatizzare senza mollare il comando. Ennesimo gioco delle tre carte in salsa padana.

Intanto l’Europa non aspetta. Il Media Freedom Act è entrato in vigore da un mese. Dal prossimo 8 agosto entrerà in vigore anche l’articolo 5, che obbliga gli Stati membri a garantire l’indipendenza editoriale dei media pubblici. La Rai così com’è oggi non è in regola. A Bruxelles lo sanno. E se a Roma non cambia nulla, scatteranno le sanzioni per infrazione, anche se nessuno ci crede. Anzi. Per l’ad Rossi basta che i pacchi aperti da Stefano De Martino facciano audience e Sanremo i record. Poco importa se aumentano i flop e vanno in onda repliche su repliche. Alle brutte si taglia l’informazione: meno puntate per “Report”, meno giornalisti per Sigfrido Ranucci, via “Petrolio”, il magazine di Duilio Giammaria.

La relazione annuale di Agcom, presentata da Giacomo Lasorella, ha mostrato che Mediaset nel 2024 ha trasmesso il doppio dei notiziari Rai: 21.908 contro 12.417, nonostante il canone e l’obbligo contrattuale. E poi c’è il rapporto 2025 di Reporters Sans Frontières: la pressione politica sui media pubblici non è solo una patologia delle democrazie fragili. In Italia, però, avviene in modo sistemico. I media pubblici si trasformano in organi di propaganda, perdono credibilità, diventano portavoce dei governi più che voce dei cittadini.

Anche economicamente non se la passano meglio: la crisi è globale. Il passaggio dal canone alla fiscalità generale comporta una perdita media del 9% delle risorse per i media pubblici. Ma se questo comporta meno soldi e più dipendenza dal bilancio statale, siamo sicuri che significhi maggiore indipendenza?

Nel frattempo, si firmano contratti da 159 milioni per affittare per 27 anni il nuovo centro Rai al Portello (Milano), con la dismissione di Corso Sempione ancora tutta da decifrare. In pratica: paghiamo come se costruissimo un grattacielo, ma alla fine non resterà neanche un balconcino.

E Sanremo? È ancora roba Rai — forse — ma anche lì regna la confusione. Comune e azienda litigano sulle “manifestazioni collaterali”, e un avvocato armato di pazienza potrebbe davvero far saltare il banco.

Il refrain politico è sempre lo stesso: serve una Rai che non abbia paura di scontentare chi governa. Che tagli i rami secchi. Che integri le Newsroom, che smetta di parlare con più voci per dire la stessa cosa. Che si liberi dai partiti. Che si chieda se davvero servano quattro microfoni per dire: «Il Papa ha detto questo e quest’altro…». Un sonoro identico per tutti, suggerito dall’ufficio stampa. Oggi il cittadino sa già tutto: lo legge su internet, lo guarda sui social. E alla Rai chiede una sola cosa: non fare informazione propagandistica e tecnicamente obsoleta. A quello ci pensa già TikTok. Gratis.

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