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Vince Bajani, ma cosa resta al Premio Strega senza le polemiche?

Il vincitore Premio Strega, Andrea Bajani

Al premio letterario i libri sono pedine di un risiko editoriale per stringere alleanze, saldare debiti e debiti di gratitudine

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A vincere il Premio Strega 2025 è stato il superfavorito Andrea Bajani con 194 voti per L’anniversario (Feltrinelli) anche se sul tabellone per la fretta era stato scritto il numero sbagliato di 187 voti. Una serata finale dopo una vigilia di tensioni mentre il governo già pensa al trasloco a Cinecittà nel 2026, anniversario degli 80 anni.

Al di là della polemica del ministro Giuli, il «nemico della domenica» che non ha ricevuto i libri finalisti del Premio Strega. Al di là dell’assenza annunciata dello stesso ministro alla cerimonia finale di ieri al Ninfeo di Villa Giulia («Che ci vado a fare se non ho potuto leggere i libri?»). Al di là della risposta diplomatica e un tantino piccata della Fondazione Bellonci. Al di là dei teatrini, degli screzi, delle frecciate, di chi si costerna e s’indigna, e delle evocazioni dello spirito dei ministri passati. Al di là di tutto questo, sarebbe il caso, per una volta, di non guardare il dito che indica la luna. Di non discutere, cioè, di chi riceve i libri per non dire a cosa servono davvero quei libri.

E allora perché non dircelo chiaro e tondo a cosa servono i libri finalisti del premio letterario più ambito, criticato, invidiato, pubblicizzato d’Italia (l’unico, in fin dei conti, a smuovere qualche copia venduta nel Paese dove il 60% della popolazione non legge nemmeno un testo all’anno)? A essere letti? A essere valutati? Magari. Il vero feticcio del Premio Strega non è il libro in sé, ma è – per così dire – il regolamento di conti.

Non si vota per affinità elettive, gusti, competenze, predilezioni. No. Si vota per appartenenze, correnti editoriali, fedeltà antiche. Si votano patti di fedeltà, cambiali di riconoscenza. È una primaria permanente in salsa letteraria, dove conta più la scuderia che la forza di una pagina. È il più grande spettacolo – di corporativismo editoriale – dopo il Big Bang: si spartiscono preferenze, si raccomanda, si promette. I libri diventano pedine di un risiko editoriale per stringere alleanze, saldare debiti di gratitudine e blocchi tra case editrici, uffici stampa e critici (se ancora esistono i «critici»).

Lo sappiamo, ce lo ripetiamo da anni, eppure il Premio Strega, ogni luglio, inscena la stessa commedia all’italiana letteraria e noi ogni volta fingiamo di scandalizzarci se qualcuno confessa di non aver letto i libri votati. Ogni volta facciamo finta di credere che i cosiddetti «Amici della domenica» siano più attenti alla prosa, allo stile, alla scrittura che alla telefonata giusta. Continuiamo a non vedere che cosa sia diventato questo premio: il perfetto riflesso di un mondo editoriale dove a contare è la cordata, e che importa se il romanzo è debole, se la voce narrante è già sentita, se la qualità latita. Quel che importa è che il titolo abbia la spinta che serve.

Ogni tanto si cambia – il numero dei candidati, il numero dei finalisti (con la quota piccolo editore) – per fare in modo che tutto resti com’è. Ma chi legge davvero, seriamente, in questo sistema? E quanti, invece, sanno solo di dover restituire un favore al prossimo giro, di avere un contratto da rinnovare, una promessa da mantenere, un’amicizia da non tradire? Il ministro Giuli si è lamentato di non aver ricevuto i libri finalisti, ma se li avesse ricevuti avrebbe scoperto che leggerli non conta niente. La sua piccola, goffa polemica, forse anche senza volerlo, può servire forse a smascherare un sistema che nessuno vuole scardinare. Poiché il consociativismo letterario è reale: non è il Grande Complotto, ma un piccolo patto di non belligeranza.

Funziona così da anni: tutti interconnessi in un giro di favori, salvo qualche pugnalata alle spalle inattesa, qualche giravolta imprevista, ma niente che rompa l’armonia. Non è un delitto, per carità, e non è nemmeno un reato, è la regola del gioco. Chi ci partecipa lo sa e si adegua. E se non si adegua peggio per lui. Almeno bisognerebbe dirlo, però: lo Strega non premia il «romanzo migliore», ma il romanzo più sostenibile. Sostenibile mediaticamente, editorialmente, economicamente.

E dunque a che serve la fatica di leggere libro per libro? I giurati del «salotto buono» della cultura italiana, risparmiandosela questa fatica (o limitandosi a leggere solo il libro che premiano), decidono chi conta e chi no, chi sta dentro e chi resta fuori, a prescindere, come direbbe Totò. Tra una settimana parleremo già di altro, ma la domanda da porsi, però, è una sola: che cosa c’entra, in questo circo mediatico, la letteratura? Nulla o poco più di nulla. Resta però il peso indiscutibile di un premio consociativo che è lo specchio fedele di chi lo distribuisce: una comunità di lettori senza libri, di scrittori senza lettori, di amici della domenica che la domenica hanno altro da fare.

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