Il ritorno ciclico delle immagini di Clinton ed Epstein non è scandalo né giustizia, ma una tecnica di potere: esporre corpi del passato per occultare il presente, trasformando la politica americana in pura gestione spettacolare dell’impunità.
L’America come un legal thriller. Quando non sa più che inventarsi, riesuma un corpo. Non metaforico: un corpo vero, fotografato, alluso, sospettato. Stavolta è di nuovo Bill Clinton. Ex presidente, ex simbolo progressista, ex tutto. Lo si riporta in scena come un vecchio poster scolorito. Non è nostalgia, è necessità narrativa.
Serve qualcuno da mostrare mentre qualcun altro resta nascosto. Le foto con Epstein funzionano come un promemoria. Clinton finisce sul banco degli imputati mediatici, Trump rimane sullo sfondo, protetto da un rumore accuratamente orchestrato.
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L’ex presidente democratico è perfetto per questo ruolo. Abbastanza colpevole da risultare credibile, abbastanza vecchio da poter essere sacrificato, abbastanza ambiguo da non richiedere prove definitive. Non occorre condannarlo né assolverlo: basta esibirlo. Come un oggetto di scena. Il teatro mediatico americano non domanda verità, chiede figure.
Da qui il ritorno ossessivo di queste immagini. Corpi già consumati dalla storia vengono nuovamente esposti allo sguardo pubblico, come se contenessero una verità decisiva. Le fotografie che ritraggono Bill Clinton accanto a Jeffrey Epstein non aggiungono nulla a ciò che era già noto, eppure vengono rilanciate come un evento.
Clinton come corpo libidinale del potere
È in questo scarto tra irrilevanza fattuale e centralità mediatica che si apre la questione. Qui non c’è scandalo. C’è una tecnica di governo. Un modo di occupare lo spazio mentale senza produrre pensiero. Clinton non riappare come soggetto politico, ma come corpo libidinale del potere. La sessualità dei potenti diventa il luogo privilegiato di una messa in scena che pretende di essere morale, mentre in realtà sospende ogni giudizio.
Non si tratta di condannare o assolvere, bensì di esporre. L’esposizione è il vero atto sovrano. In essa il potere rinuncia a ogni responsabilità storica e si riduce a immagine. È una pornografia politica: non perché mostri il sesso, ma perché riduce il potere alla sua nudità spettacolare.
D’altro canto, la funzione di Clinton, oggi, è eminentemente sostitutiva. L’esibizione del passato serve a coprire il presente. L’attenzione si concentra sul corpo invecchiato di un ex presidente, mentre il potere attuale resta opaco, non interrogato. Trump non viene difeso: viene semplicemente sottratto allo sguardo. È una strategia di occultamento per saturazione. Si mostra troppo, così l’essenziale diventa invisibile.
La domanda non è dunque che cosa abbia fatto Clinton. La vera domanda è perché dobbiamo occuparcene ancora. Perché questo ritorno del già visto. La risposta sta nella trasformazione della politica occidentale in una gestione permanente dello scandalo. Lo scandalo non interrompe l’ordine, lo conferma. Non produce crisi, genera stabilizzazione. Funziona come una valvola di sfogo che consente al sistema di perpetuarsi senza mai essere messo in questione.
Epstein è una soglia
Epstein, in questo quadro, non è un individuo, ma una soglia. Una zona di indistinzione in cui colpa e innocenza, responsabilità e sospetto si confondono. Un luogo oscuro che attrae nomi, immagini, narrazioni, senza mai approdare a una verità condivisa. Non perché la verità sia nascosta, ma perché non è più richiesta.
Conta il movimento, il flusso incessante delle rivelazioni, che impedisce ogni sedimentazione critica. In questo teatro, i cosiddetti “maniaci sessuali” svolgono una funzione precisa: incarnano il male in una forma individuale e patologica, distogliendo l’attenzione dal carattere strutturale del potere. Il desiderio deviato diventa una spiegazione sufficiente e quindi rassicurante.
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Il sistema resta intatto. La realtà è l’esatto contrario. Il caso Epstein va consultato come una cartografia del potere contemporaneo. Un atlante dove la politica americana, il jet set internazionale, l’aristocrazia finanziaria e culturale appaiono finalmente per ciò che sono: una sola classe, un solo corpo, una sola liturgia. Il miliardario Epstein ne è stato un luogo di passaggio, il vestibolo, la stanza d’attesa dove tutti sono transitati lasciando tracce, sorrisi, immagini, silenzi. La sua funzione non era nascondere, ma rendere tutto equivalente. Il presidente e l’attore, il principe e il professore, il filantropo e il trafficante di corpi: nessuna gerarchia, solo prossimità.
Il vizio è rituale
La colpa, in questo spazio reso astratto, era un clima. Si respirava. Come nelle grandi corti decadenti, il vizio non era clandestino ma rituale. Si ripeteva. Si mondanizzava. Diventava linguaggio comune. Jeffrey Epstein è stato il nome proprio (o forse solo un nome in codice) di un ordine che ha smesso di distinguere tra pubblico e privato, tra legge e privilegio. Il suo jet non era un mezzo di trasporto, ma una forma di sovranità mobile. Chi saliva a bordo non chiedeva dove si andasse. Sapeva già di essere al sicuro. Tutto è emerso, tutto è stato detto, tutto è stato fotografato. Eppure nulla è accaduto davvero. Il potere contemporaneo non teme la verità: teme la forma. Finché il male resta racconto, flusso, intrattenimento, rimane gestibile. Epstein, come un curatore di una galleria multinazionale, ha allestito una mostra temporanea dell’impunità.
Il mondo politico, artistico e finanziario l’ha visitata, ha firmato il guestbook, ha brindato all’inaugurazione. Poi il curatore è morto: suicidato, ucciso. Non scomparso. Figure come lui, al massimo, escono di scena, lasciando dietro di sé vittime invisibili, opere non catalogate. La sua è stata un’estetica del potere. E ogni estetica chiede una sola cosa: che nessuno distolga lo sguardo, purché nessuno guardi davvero. Continueranno a circolare immagini, molte altre mancheranno, poi arriveranno, poi spariranno di nuovo. Da molto tempo l’America ha sostituito la politica con la gestione delle immagini.
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Un’America senza tempo storico, condannata a un eterno ritorno dell’identico, in cui i fantasmi del passato vengono continuamente riesumati per evitare ogni pensiero del futuro. Il Paese in cui la morale viene invocata solo per essere immediatamente neutralizzata nello spettacolo, dove il potere non decide più e perciò non non può far altro che rappresentarsi. Forse il vero scandalo non è ciò che vediamo, ma il fatto che continuiamo a guardare. Che accettiamo di abitare questo spazio saturo di immagini senza chiederci chi lo produce e a quale fine. In questo senso, Clinton ed Epstein restano figure secondarie. Il vero protagonista è il dispositivo che li espone e che, esponendoli, ci governa.


















