23 Dicembre 2025

Direttore: Alessandro Barbano

22 Dic, 2025

Bilancio, i nodi che la legge non scioglie

Tra conti sotto controllo e crescita sacrificata, la legge di bilancio rivela tutte le contraddizioni di una politica economica senza visione sul futuro del paese.


Forse ci siamo. A due mesi dalla presentazione della proposta di legge di bilancio, la manovra è finalmente approdata in aula al Senato, che dovrà esaminarla a tempo di record, tra Natale e Capodanno, per consentire alla Camera di approvarla a sua volta entro il 31 dicembre, data ultima per evitare l’esercizio provvisorio. Per rispettare i tempi, il dibattito parlamentare sarà ovviamente compresso all’inverosimile e se necessario concluso a colpi di fiducia.

Nel frattempo, la manovra è lievitata a 22 miliardi, dai 18 iniziali, per l’aggiunta di 3,5 miliardi per le infrastrutture e il sostegno alle imprese, in particolare per l’iper-ammortamento dei beni strumentali, a sua volta resosi necessario dopo il pasticcio combinato dallo stesso governo su Industria 5.0, con le imprese che si sono visti negare i soldi promessi con il PNRR nello spazio di un mattino. Le misure sull’allungamento delle finestre di attesa per le pensioni anticipate (a partire del 2031), previste nel primo maxi-emendamento presentato dal governo in commissione bilancio ma indigeste alla Lega, sono state tolte per evitare una crisi nella maggioranza e sostituite per le coperture da tagli vari (sul fondo per la coesione, per la Rai, per i fondi per le pensioni anticipate di alcune categorie di contribuenti etc.) e stringendo ulteriormente i bulloni ai soliti noti, banche e assicurazioni.

La politica economica del governo

Ma piuttosto che discutere i singoli interventi previsti (ammesso e non concesso che rimangano inalterati durante il residuo dibattito parlamentare) conviene piuttosto fare il punto su cosa la manovra ci dice sulla politica economica perseguita dal governo e sulla sua visione per il futuro del paese. Sul lato della tenuta dei conti, viene mantenuto l’obiettivo di rispettare le regole europee e di rientrare nel 2026 dalla procedura di disavanzo eccessivo, portando stabilmente il deficit sul Pil sotto il 3 per cento. Questo è sicuramente un plus per il governo, oltretutto ampiamente riconosciuto dalle società di rating e dai mercati, con uno spread del BTP sul Bund tedesco inferiore di oltre 50 punti a quanto fosse solo un anno fa.

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Sul lato della crescita economica, però, che è almeno altrettanto fondamentale anche solo per la tenuta dei conti, le idee sembrano confuse e quelle che ci sono perniciose. Il balletto politico sulle pensioni ne è la testimonianza più chiara. Piaccia o meno, il problema fondamentale con cui si confronta il paese è il rapido invecchiamento della popolazione, peggiore anche delle previsioni più pessimistiche, con una quota di popolazione attiva (15-64 anni) che secondo l’Istat si è già ridotta di quasi 4 punti negli ultimi vent’ anni (dal 67 al 63%) e che si prevede si ridurrà di altri 9 nei prossimi venti. Il fenomeno, comune ad altri paesi avanzati anche se non nella stessa misura, è ulteriormente aggravato dalla fuga verso l’estero dei giovani più istruiti, alla ricerca di migliori condizioni lavorative, 450.000 (al netto dei rientri) dal 2011 ad oggi, 78.000 nel solo 2024.

La necessità di un orientamento verso i giovani

È impossibile affrontare questi problemi senza una politica più orientata ai giovani, una ripresa dell’immigrazione di qualità (che richiede anche una politica dell’accoglienza) e senza riconoscere che con questi numeri sarà comunque necessario per tutti di lavorare più a lungo per sostenere il welfare, dalla sanità alle stesse pensioni. Il governo su questo è bifronte, per esempio spende un miliardo per evitare di aumentare l’età pensionabile di tre mesi ma nel frattempo fa quello che può per evitare che la gente vada in pensione troppo presto, compreso il tentativo fallito di innalzare le finestre per l’uscita. C’è un chiaro cortocircuito tra il populismo delle promesse elettorali e la razionalità economica che impedisce di offrire una soluzione politica sensata e di dare un chiaro segnale al paese.

Sul fisco, stessa cosa. Con la manovra il governo taglia di due punti l’aliquota del penultimo scaglione dell’Irpef (l’imposta progressiva sui salari e le pensioni), ma si rifiuta di riconoscere che il problema fondamentale del fisco italiano è che incide troppo sul lavoro dipendente (e assimilati) e troppo poco su tutto il resto. Anche il pur limitatissimo tentativo di imporre un’aliquota più alta sugli affitti è rapidamente rientrato, mentre continuano a riproporsi condoni e rottamazioni di cartelle, per non parlare del mantenimento di agevolazioni inique e perniciose per la crescita come il forfettario esteso.

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Sul lato della concorrenza e dei mercati, il governo è troppo prigioniero dei propri gruppi di riferimento elettorale per poter dare una spinta seria al sistema, vedi per ultimo la decisione di affiancarsi alla Francia per rimandare l’entrata in vigore del Mercosur, nonostante la pressione favorevole dell’industria, a sua volta in grave difficoltà e fondamentalmente dimenticata dal governo. E non parliamo dei vari interventi sul sistema finanziario, già più volti discussi, privi di logica se non quelli dell’accaparramento delle risorse. In conclusione, la manovra sarà probabilmente approvata in tempo per evitare l’esercizio provvisorio, ma se non ci si decide ad affrontare questi nodi strutturali il paese non andrà molto lontano.

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