La divulgazione storica non è mai innocente: quando l’ironia e il rifiuto delle categorie morali diventano un modo elegante per eludere le responsabilità politiche
Alessandro Barbero è diventato qualcosa che uno storico serio dovrebbe guardare con sospetto: un divulgatore seduttivo e affabile, che fa leva sulla sua popolarità per legittimare una visione del mondo ideologica spacciata per verità storica. Barbero è, in effetti, una figura rassicurante, come lo zio simpatico che la sa lunga, quello che arriva con l’aria di chi «non vuole convincere nessuno», mentre in realtà persegue esattamente questo scopo.
Ridendo, minimizzando, ironizzando, ammiccando. È un medievista di tutto rispetto che a un certo punto della sua carriera ha deciso di smettere i panni dell’accademico per vestire quelli dell’opinionista nei talk-show e del “comédien” capace di riempire i teatri; uno studioso di storia militare riconvertitosi in cantastorie che ti prende per mano e ti dice: «Ora ti spiego quanto il mondo sia più complicato di come vogliono farti credere».
La clip sulla guerra in Ucraina che gira sui social – uno dei tanti frammenti estratti, rilanciati e consumati come pillole di saggezza anti-mainstream – è, in questo senso, particolarmente emblematica. Merita di essere vista per il suo concentrato di veterocomplottismo ammantato di competenza storica in poco più di due minuti. Barbero qui dice, testualmente, che «l’Occidente ha deciso e ha voluto far credere alla nostra gente che fra quei due Paesi molto diversi dal nostro e che fra loro si assomigliano molto, la Russia e l’Ucraina, uno invece era nostro, era come noi, e noi dovevamo per questo difenderlo senza chiederci i motivi di questa guerra». Sarebbe, dunque, una «menzogna occidentale» a imporre una lettura morale della guerra: buoni (ucraini) contro cattivi (russi), noi (europei più ucraini) contro loro (russi). Il tono è quello di chi smonta un’ingenuità, di chi si mette un gradino sopra il coro dei creduloni.
Lo storico che smonta la realtà
Il problema è che, nel farlo, Barbero smonta anche la realtà. Perché la questione, che Barbero nega, è che un confine riconosciuto è stato violato, che una guerra è stata scelta deliberatamente da una potenza contro un vicino più debole. Trasformare questo fatto così elementare in una favola morale occidentale significa spostare l’attenzione dal fatto politico alla sua presunta narrazione, significa cioè dissolvere la responsabilità nel linguaggio. È un’operazione profondamente strumentale. Come strumentale è insistere sul fatto che sia stato l’Occidente a «decidere» che ucraini e russi non sono la stessa cosa.
È una torsione retorica talmente grossolana che, in teoria, non meriterebbe nemmeno di essere discussa. Barbero finge di non sapere che non è l’Occidente ad averlo deciso: sono stati gli stessi ucraini. Con le elezioni, le rivoluzioni, le piazze, le scelte politiche, con il prezzo pagato in termini di vite, distruzione e deportazioni forzate. Raccontare l’identità ucraina come una costruzione eterodiretta – dall’Europa, dalla Nato, dagli Stati Uniti – vuol dire rifiutare l’autodeterminazione dei popoli, cioè uno dei pochi principi che dovrebbero restare non negoziabili per chi si dice democratico e progressista. Ma evidentemente anche l’autodeterminazione può essere archiviata come un dettaglio.
Il problema della narrativa
Barbero sostiene che l’attenzione mediatica occidentale, presentando la guerra in Ucraina come uno scontro morale tra “buoni” e “cattivi”, impedirebbe una comprensione profonda delle motivazioni e delle identità coinvolte. Ma anche qui la critica si rovescia nel suo contrario. Perché nel momento stesso in cui denuncia la semplificazione, Barbero ne introduce una nuova, più subdola e più pericolosa: trasforma una guerra di aggressione in un problema di storytelling. Non conta più chi invade e chi subisce; conta solo come la storia viene raccontata.
Dice, ancora, Barbero, sempre sorridente, che «questa guerra non si capisce», che la copertura mediatica rende impossibile capire «che razza di guerra sia». Anche questa è una scorciatoia retorica. Mai come oggi, infatti, una guerra è stata così documentata, analizzata e ricostruita: abbiamo immagini satellitari, fonti open source, report indipendenti, analisi militari.
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Non è vero che non si capisce. È vero, semmai, che capire costringe a riconoscere delle asimmetrie. E le asimmetrie sono esattamente ciò che questo racconto rifugge con ostinazione. A questo punto Barbero smette, com’è evidente, di essere un caso individuale per diventare un sintomo più generale. Perché la sua postura si inserisce perfettamente nella lunga deriva di una sinistra occidentale e nostalgica post-1989. Con la caduta del Muro, molte categorie critiche hanno perso il proprio orizzonte fondativo; l’antimperialismo è sopravvissuto alla sua ragion d’essere mutandosi in un riflesso condizionato. In questa logica, la critica all’Occidente diventa una verità rivelata e l’aggressore dell’Occidente un argine legittimo.
La Russia di Putin – pur nella sua brutalità incontestabile – sarebbe solo una “reazione”, una necessità storica. Non è un caso che questo clima abbia prodotto fratture anche nel mondo della geopolitica italiana. Nelle ultime settimane una serie di collaboratori storici di Limes – fra cui Federigo Argentieri, Franz Gustincich, Giorgio Arfaras e Vincenzo Camporini – hanno lasciato la rivista denunciando una linea editoriale giudicata troppo indulgente verso Mosca.
Storia e geopolitica come giustificazio
Barbero, Limes, una certa sinistra, il filo è lo stesso: la storia e la geopolitica usati come strumenti per giustificare, come un solvente che scioglie ogni responsabilità. In questo senso, la divulgazione barberiana è un dispositivo culturale propagandistico. E pesa ancora di più perché Barbero parla a folle adoranti, soprattutto giovani, che lo seguono per il suo tono, per l’ironia, per quella sensazione di superiorità tranquilla che il suo racconto produce. Il rischio, per un pubblico assetato di certezze, è enorme: confondere il carisma con il metodo e il racconto con l’analisi.
La divulgazione, infatti, non è mai neutra. E chi occupa una posizione di influenza lo dovrebbe tenere sempre da conto. Perché dire che «buoni e cattivi non esistono» può sembrare un modo per combattere le semplificazioni manicheistiche. Ma nella realtà, quasi sempre, è solo un escamotage per non dire chiaramente chi ha scelto la guerra, e chi, semplicemente, combatte per resistere ed esistere.


















