18 Dicembre 2025

Direttore: Alessandro Barbano

17 Dic, 2025

Bondi Beach, il funerale delle vittime e il ritorno dell’Isis

A Sydney la comunità ebraica ha iniziato a dare l’ultimo saluto alle vittime della strage di Bondi Beach, tra cui una bambina di dieci anni, un rabbino noto per il suo impegno sociale e un sopravvissuto alla Shoah. Le prime esequie si sono tenute davanti alla sinagoga di Chabad a Bondi, tra lacrime, commozione e un apparato di sicurezza imponente, mentre centinaia di persone erano ammassate fuori. Quel funerale, e quelli che seguiranno nei prossimi giorni, segnano l’inizio di un dibattito che l’Occidente fatica, forse, a sostenere con il necessario rigore morale e politico.

Il lutto e lo choc

Perché a distanza di giorni, ciò che resta di Bondi Beach non è soltanto il lutto, lo choc e lo sconcerto di quel che è accaduto. È il disagio di dover riconoscere che lo Stato islamico, dato troppe volte per archiviato, continua a produrre violenza anche senza apparire. E lo fa non grazie alla propria forza, bensì grazie alla rimozione occidentale.

Il ritorno dell’Isis

Dal “dopo” Bondi Beach emergono fatti concreti. Lo stesso primo ministro Anthony Albanese ha affermato pubblicamente che l’attacco apparirebbe ispirato dall’Isis. A indicarlo sono le bandiere trovate nell’auto dei due attentatori – padre e figlio – e la permanenza della coppia di terroristi a novembre nel sud delle Filippine, dove gruppi affiliati all’Isis sono ancora presenti sotto forma di cellule residuali. Inoltre, il figlio era già stato attenzionato dall’intelligence australiana nel 2019 per possibili legami con cellule legate al terrorismo islamico. Tutto questo se non prova un coordinamento operativo, dimostra di certo l’esistenza di un circuito ideologico attivo.

Il terrorismo a bassa intensità

Pochi contatti, brevi immersioni, ritorni silenziosi. È terrorismo a bassa intensità organizzativa e ad alta intensità simbolica. Ed è esattamente quello che le nostre società stentano di più a riconoscere: un jihadismo che ha mutato pelle, che non governa più province e califfati, ma agisce in aree di insicurezza geopolitica – il Sahel, l’Afghanistan post-talebano, la gestione del Mediterraneo ridotta a emergenza umanitaria permanente, il Sud-Est asiatico – e in spazi di fragilità all’interno delle nostre società. Se dieci anni fa l’Isis prosperava nel collasso di Siria e Iraq, infatti, oggi si rafforza nella disgregazione dell’ordine internazionale. Stati falliti, guerre per procura, ritiro occidentale, crisi del multilateralismo. È un jihadismo post-territoriale che resiste e sopravvive come cultura politica armata. Ed è questa sopravvivenza a permettergli di riattivarsi altrove, in forme intermittenti, difficili da intercettare. Ma sarebbe un errore pensare che il problema sia solo geopolitico.

L’antisemitismo

Il vero collante che tiene insieme questa nuova fase, come mostra tragicamente la strage di Sydney, è l’antisemitismo, un linguaggio comune che consente al jihadismo globale di dialogare con pezzi del radicalismo occidentale, con settori della protesta politica, con una parte dell’opinione pubblica europea. È un punto di contatto tra mondi che si credono incompatibili e che invece si riconoscono in una logica sacrificale. La guerra di Gaza ha funzionato, da questo punto di vista, come un gigantesco acceleratore. Non perché Hamas e Isis coincidano – continuare a confonderli è analiticamente sbagliato – ma perché il conflitto è stato trasformato in una narrazione assoluta. Nel mondo ridotto schematicamente a oppressori e oppressi, l’ebreo è diventato un simbolo dei primi. E i simboli, si sa, possono essere colpiti. È qui che l’antisemitismo torna a funzionare come fattore di coesione trasversale.

La maschera dell’antisionimo

Nelle piazze europee, nei social network (basterebbe leggere gli agghiaccianti commenti diffusi sulla strage di Bondi Beach), in certi ambienti universitari, l’odio antiebraico si ripresenta travestito da indignazione morale. È uno slittamento micidiale. Perché quando l’antisemitismo diventa “rispettabile” sotto la maschera dell’antisionismo, come già nel lontano 1969 denunciava Jean Améry, quando come categoria pre-politica si insinua nel tessuto del dibattito pubblico, il terrorismo non ha più bisogno di legittimazione diretta. Basta un clima in cui le distinzioni fondamentali – tra critica politica e odio, tra conflitto e genocidio, tra legittimità e violenza – vengono appiattite o cancellate. L’Isis intercetta perfettamente questo clima. Non ha bisogno di propaganda, e nemmeno di ordini diretti.

L’Europa impreparata

Di fronte a questo “ritorno” l’Europa si scopre impreparata, debole strategicamente. L’impressione è che lo Stato islamico stia tornando come sintomo di una regressione che riguarda l’intera civiltà politica occidentale. E i funerali di Bondi Beach, con rabbini che parlano di luce in mezzo all’oscurità sotto una pesante scorta di polizia, non sono soltanto un lutto privato. Sono un monito pubblico anche per noi: quando l’Europa abdica alla distinzione tra politica e barbarie, qualcun altro occupa quel vuoto simbolico. E a quel punto la democrazia torna a essere in pericolo non soltanto per la paura degli attentati, ma per la perdita della sua capacità di pensare, di nominare, e quindi di reagire.

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