16 Dicembre 2025

Direttore: Alessandro Barbano

16 Dic, 2025

Giustizia, la riforma tirata a braccetto

Se sono fondati i sondaggi sul referendum, alla fine la riforma della giustizia si farà, a dispetto delle maldestre intenzioni della maggioranza che se l’è intestata. E che pensa, con le parole della premier Giorgia Meloni o del ministro guardasigilli Carlo Nordio, che la separazione delle carriere eviterà «una vergogna come quella che stiamo vedendo a Garlasco», oppure scongiurerà la liberazione dell’imam che inneggia dal pulpito al terrorismo del 7 ottobre, o ancora consentirà alla politica di «recuperare quello spazio colmato dalla magistratura» e sarà utile anche all’opposizione, qualora andasse un domani al governo.

Il caso Garlasco

Sono, quelli di Meloni e Nordio, auspìci non pertinenti. La vergogna di Garlasco non è figlia della unicità delle carriere, ma piuttosto dell’appellabilità ad libitum delle sentenze da parte delle procure, che consente la condanna nel terzo grado di giudizio di un imputato assolto nei primi due. Come Alberto Stasi.

La contraddizione

Nel nostro ordinamento la condanna è possibile solo se la colpevolezza è provata oltre ogni ragionevole dubbio. Vuol dire che il dubbio è un limite invalicabile rispetto alla potestà punitiva, secondo un principio di matrice liberale che, in assenza di una prova certa, preferisce rischiare di assolvere un colpevole piuttosto che di condannare un innocente. Ma se un giudice può condannare dopo che altri abbiano dubitato e perciò assolto, vuol dire che quel limite può trasformarsi in un errore, semplicemente insistendo. Con una contraddizione logica e culturale che sovverte il principio di presunzione di innocenza nel suo contrario, cioè in una supposta colpevolezza. Che questa contraddizione meriti una riforma è indubbio. Ma che possa risolversi con la mera separazione delle carriere è una clamorosa fesseria. Bisogna piuttosto rendere inappellabili le assoluzioni.

La liberazione dell’imam

Allo stesso modo non c’è nessun rapporto tra la riforma della giustizia e la liberazione dell’imam, cioè l’annullamento da parte di un giudice di un provvedimento di una pubblica autorità che comprime la libertà di un cittadino. Il primato del giudicante, che la separazione delle carriere promuove, non può infatti neanche casualmente coincidere con la sua soggezione alle ragioni di chi governa. Semmai è vero il contrario. Un giudice autenticamente terzo e imparziale rappresenta una garanzia più per il cittadino, che difenda la sua libertà, piuttosto che per lo Stato, che persegue una logica di risultato, ancorché nobile, come la tutela dell’incolumità pubblica dal rischio che l’apologia delle stragi da parte dell’imam si traduca in un’istigazione a delinquere.

Il riscatto della politica

Da ultimo, poco ha a che vedere la separazione delle carriere con il riscatto della politica e il riequilibrio del suo rapporto con la magistratura. Nel senso che ridurre la riforma a uno scudo per uomini di governo, parlamentari e amministratori è un autogol, perché dà ai cittadini la percezione di essere strumento di una battaglia autoreferenziale che riguarda soprattutto i potenti.

Un giudice sopra le parti

Per fortuna, a dispetto di una narrazione così infelice, le virtù della separazione delle carriere sono autoevidenti. Poiché l’opinione pubblica ha tratto in questi ultimi decenni una diretta esperienza di quanto sia pericoloso, per sé, per i propri familiari o più semplicemente per amici e conoscenti, finire nel radar dell’azione penale nel nostro Paese. Pensate ai cittadini delle regioni del Sud, dove con una cadenza semestrale sono state condotte maxi operazioni di polizia con centinaia di arresti e una percentuale bassissima di condanne. Quei cittadini non hanno bisogno di statistiche sulle ingiuste detenzioni, o di dotte interpretazioni giurisprudenziali, per capire che, tra la difesa della loro innocenza e la pretesa dello Stato che di notte viene svegliarti a sirene spiegate per metterti le manette ai polsi, purtroppo non c’è partita. E che la loro garanzia ultima sia proprio quella di un giudice il più possibile sopra le parti, che non compiace il pm, non ascolta le sirene della piazza, non teme la forza dello Stato. E mette il dubbio davanti al risultato.

La prospettiva

Ecco perché la separazione delle carriere passerà, secondo le previsioni, come una regola di normalità, che ci avvicina alla Francia, alla Germania, alla Spagna e a tutte le democrazie liberali d’Europa, dove è già in vigore. Con buona pace di chi, per ignoranza o per la difesa di rendite corporative, la osteggia. Ma anche di chi la promuove per verticalizzare il potere e proteggere la politica. Obiettivi certamente legittimi, ma realizzabili attraverso poteri e immunità che poco hanno a che vedere con la riforma della giustizia.

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