Con la dottrina Trump svanisce l’illusione europea della post-Guerra fredda: l’America volta le spalle all’Europa e il Vecchio Continente scopre la fragilità delle sue certezze
Tempi cupi e incerti? Cupi di sicuro, incerti meno di quello che si possa pensare. Anzi l’impressione è quella del disvelamento, più che dell’incertezza. Di incerto vi è la meta finale, ma come si sta navigando è piuttosto evidente. E il contributo definitivo per strutturare questa certezza è giunto con la National Security Strategy di Donald Trump.
Si tratta di un documento esplicitamente antieuropeo, anti Unione europea e anti-processo di integrazione europea. Si può poi discutere dei dettagli, ma rispetto al legame e alle relazioni tra “vecchio” e “nuovo” mondo, quel documento mette un punto, chiude una lunga parentesi che si era aperta dopo il crollo del sistema bipolare e non si era mai chiusa.
L’Europa nella volontà americana
Procedendo con ordine e in maniera molto schematica, sul finire della Seconda guerra mondiale si struttura quel mondo aperto e interdipendente noto come occidente euro-atlantico. Esso è uno spazio politico, economico e culturale che si contrappone all’altro blocco, quello a guida sovietica, per i quarant’anni di Guerra fredda.
L’integrazione europea, in questo contesto, è un prodotto della volontà politica statunitense. Nessuno vuole affermare che l’ideale europeista nasca a Washington, ma il suo concretizzarsi dal 1950 in poi riceve da oltreoceano la sua spinta propulsiva. Storicizzare quel rapporto significa anche ricordare i molti momenti dialettici che lo hanno caratterizzato. Tra tutti basti pensare al passaggio critico di inizio anni Settanta, in epoca di presidenza Nixon, tra crisi monetaria e petrolifera.
Ma il vero spartiacque è giunto con la fine del sistema bipolare. Crollato il Muro, unificata la Germania e dissolta l’Unione sovietica per i più superficiali si sarebbe aperta la “fine della storia”, per i pragmatici si è entrati in una terra senza nome, in una sorta di strano limbo delle relazioni internazionali. Oggi, osservando l’evoluzione in atto, possiamo affermare che nei primi mesi del 2000 ci sono stati due passaggi chiave. Venticinque anni fa la Cina entrava nel WTO e Vladimir Putin diventava presidente della Russia per la prima volta.
Le certezze infrante
L’Europa che stava portando a termine il suo “grande allargamento” ad est, pareva convinta di poter entrare nel XXI secolo forte di tre certezze: l’ombrello di sicurezza statunitense con il braccio armato della Nato (che non a caso era appena intervenuta nel quadrante balcanico), le risorse energetiche a buon mercato provenienti dalla Russia e i rapporti fatti di scambi commerciali e delocalizzazione industriale con la nuova officina del mondo, ovvero la Cina del comunismo turbocapitalista. Covid-19, invasione russa dell’Ucraina e ora “dottrina Trump” costituiscono i tre tasselli che hanno chiuso definitivamente la lunga parentesi post-bipolare e azzerato le certezze europee.
È ingiusto affermare che l’Europa non abbia fatto nulla, che non abbia iniziato a pensarsi nella solitudine di questo nuovo contesto. È altresì però corretto ricordare che chi ha cercato più di tutti una nuova via per il processo di integrazione è rimasto inascoltato. Basti pensare all’Emmanuel Macron della Nato “in stato di morte cerebrale” (con la Turchia dell’epoca che acquistava sistemi missilistici russi) e del primo discorso alla Sorbona del 2017.
E cosa dire del federalismo pragmatico di Mario Draghi, che ha indicato in maniera precisa la via per un’Europa potenza finanziaria e industriale? Il suo pluricitato, ma mai letto nella sua totalità, rapporto giace totalmente inapplicato. Di fronte allo strutturarsi di un mondo di Stati imperiali (Usa, Russia, Cina, potenzialmente India) servirebbe come non mai un’Europa che facesse del suo federalismo pragmatico l’asse portante, mentre all’orizzonte emerge una sommatoria disgregata di Stati nazione.
Italia, prima ad essere a rischio
Difficile dunque essere ottimisti, ma meno di altri dovremmo esserlo noi italiani. E per quale ragione se il Paese si presenta addirittura come modello di stabilità governativa e rigore nella gestione dei conti pubblici? Essenzialmente perché non si vive di ordinaria amministrazione in tempi straordinari. Perché il malsano equilibrismo transatlantico che ci caratterizza è una cortina fumogena che nasconde i rischi che stiamo correndo. Per quanto tempo tutto ciò durerà?
LEGGI Via libera dell’Ue al blocco indeterminato degli asset russi
La realtà è quella di un Paese che ha faticato a ripensarsi nella sua proiezione di politica estera dopo la fine della rendita di posizione geopolitica della Guerra fredda. Nel mondo neo-imperiale quali sono i nostri margini di manovra? Prodi e Berlusconi tra il 1996 e il 2006 avevano elaborato due strategie. La prima tutta proiettata nell’orizzonte comunitario e la seconda legata all’allora teoria statunitense dell’esportazione della democrazia.
L’attuale governo ha deciso di collocarsi in scia con chi oggi vorrebbe invece esportare l’autoritarismo? Possiamo anche dileggiare l’idea dei “volenterosi”, ma non dobbiamo dimenticare che un Regno Unito in difficoltà ha comunque una tradizione post-imperiale (ciò che resta dei legami con il Commonwealth) e una sua deterrenza nucleare. La stessa sulla quale può contare Parigi, unico Paese dell’Ue in questa posizione. Berlino dal canto suo ha lo spazio fiscale per poter impegnare cento miliardi di euro per ristrutturare il comparto di difesa.
Responsabilità necessaria a Roma
E noi? Noi che abbiamo impostato la nostra unificazione nazionale (grazie a Camillo Benso conte di Cavour) sull’interdipendenza europea (vedi i rapporti ottocenteschi con Londra, la Francia di Napoleone III e la Prussia) come pensiamo di muoverci? Noi che abbiamo inserito nel nostro Dna costituzionale e postfascista il primato dell’interdipendenza e del multilateralismo, come possiamo scegliere la dottrina Trump? E’ l’ideologia a guidare la politica estera?
Le parole di ieri provenienti dal Quirinale sono una conferma della necessaria assunzione di responsabilità del nostro Paese. L’Italia deve essere in prima fila nel tentativo di dire no al nuovo ordine globale che si sta strutturando innanzitutto a partire dalla trincea ucraina. Lo deve fare collocandosi accanto a Londra, Parigi e Berlino e abbandonando il patetico ruolo di circense lungo il filo spezzato del rapporto euro-atlantico che fu.












