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Pasolini ad Atreju: per la nuova destra o per riciclare la vecchia?

Qual è il senso del recupero del pensiero del grande intellettuale friulano avviato oggi dalla destra italiana

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Perché Pasolini? Perché prender su Pasolini e farne un pensatore di destra (oppure caro alla destra, letto anche a destra)? È facile rispondere: per due ragioni. Perché eretico, e perché reazionario. Per la destra italiana in cerca di egemonia, il comunismo di Pasolini non fa certo problema, visto che sta insieme a un mucchio di cose con cui si può agevolmente simpatizzare: la critica al conformismo, al neocapitalismo, al laicismo, al permissivismo, al perbenismo, al moralismo, al progressismo, alla nuova religione della modernità.

La tesi di Veneziani e Viggiano

Ma è una carta consumata, questa: ieri ne ha scritto Ciriaco M. Viggiano su queste colonne, ma la bellezza di trent’anni fa, “Repubblica” ospitava un articolo di Marcello Veneziani dal titolo “Ditemi se questo è un poeta della sinistra”, in cui Pasolini era presentato come un populista antimoderno, e come negare che tale egli fosse? Certo, le cose che ho elencato prima non potevano più trovare, in Pasolini, approdi convenzionali, nel senso per esempio di una dolente nostalgia del sacro, di un rispettoso amore della tradizione e nemmeno di un cupo elogio del boia, perché il Sacro, la Tradizione o il Potere, che la modernità aveva agli occhi di Pasolini il torto di svilire e svendere, potevano per lui essere attinti ormai solo in un gesto estremo (in una vita o in una performance estrema, o meglio nell’indiscernibilità di entrambe) che fosse nello stesso tempo il più puro e il più blasfemo, e dunque insieme nella perfetta innocenza o nella completa abiezione. Da rinnegati e da crocifisso, ad un tempo.

La mossa di Renzi

Ma queste son complicazioni. Sta il fatto che c’è modo di trovare in Pasolini mille ragioni per rifiutare la civiltà in cui ci troviamo a vivere, e quale conservatorismo non ha motivo di provare a far sue almeno alcune di queste ragioni? Nessuna sorpresa, dunque: sono almeno trent’anni che lo si fa. Anzi, se proprio ci si vuol sorprendere (fino allo sbalordimento), converrà ricordarsi che, dall’altra parte, il Pd guidato da Matteo Renzi ebbe non molto tempo fa la bella pensata di intestare a Pier Paolo Pasolini, sotto l’autorità di Massimo Recalcati, nientedimeno che la scuola di formazione politica del partito, nella convinzione che in Pasolini si ritrovassero – chi l’avrebbe mai detto? – «le anime multiple del Pd». Non riesco a immaginare un’affermazione più rocambolesca, ma si capisce: se Pasolini vale come campione di pensiero critico e anticonformistico, chi non vorrà prendersi un pezzetto della sua eredità, intascandola però alla prudente distanza di cinquant’anni dalla sua morte?

Atreju

Così fan tutti, e così si fa con tutti. Se tuttavia per Michael Ende si possono ancora ascoltare i titolari dei diritti delle sue opere, che dal profilo Facebook ufficiale dello scrittore prendono la parola per dire che la festa di Fratelli d’Italia si chiamerà pure Atreju, ma l’appropriazione politica del nome di uno dei protagonisti de «La storia infinita» a loro spiace assai e non c’azzecca proprio, per Pasolini non c’è pagina ufficiale che tenga, né appartenenza da difendere o fedeltà da osservare. Ovvio, dunque, che piovano su di lui letture e riletture, interpretazioni e contro-interpretazioni, commenti e nuovi commenti.

L’operazione culturale

Dopodiché ci si dovrà pur chiedere, però, quanto valga tutto ciò. Anche in questo caso è facile rispondere: poco, molto poco. Operazioni del genere non avrebbero un significato meramente aneddotico, o il peso leggerissimo del ballon d’essai, soltanto in due casi: nel caso in cui si riuscisse a dire qualcosa di nuovo sull’autore in questione, proponendone una intempestiva attualità, oppure nel caso si riuscisse a cambiare qualcosa della famiglia politica o della tradizione culturale alla quale ci si rivolge.

L’Italia degli anni Settanta

È quel che per esempio accadde in Italia, sul finire degli anni Settanta, quando la filosofia italiana seppe avviare un confronto assai serrato con pensatori come Nietzsche, Heidegger o Schmitt ideologicamente assai distanti dalla cultura ufficiale della sinistra. Non era uno scherzo: trattavasi di due nazisti, e di uno che il nazismo osannò e fece proprio. Bisognava farsi largo fra superomismi, antisemitismi e decisionismi, scansare rivoluzioni conservatrici e miti volkisch, e poi anti-illuminismi, anti-giuridicismi e anti-egualitarismi assortiti. Lo si provò a fare, pensando così di poter da un lato portare sotto una diversa luce le loro affilatissime analisi critiche della civiltà moderna, del liberalismo o dell’americanismo, e, dall’altro, di poter surrogare o completamente rinnovare una tradizione politica – lo storicismo gramsciano, detto all’ingrosso – che pareva aver esaurito la sua spinta propulsiva. Con quanto torto o con quanta ragione non discuto qui, ma questo era il senso non piccolo dell’impresa.

Pasolini nel Pantheon della destra

Forte di questo esempio, ora domando: qual è il senso dell’impresa che si vuol tentare oggi con Pier Paolo Pasolini? A me non sembra che si riproponga nulla di paragonabile. O almeno: non saprei dire in qual modo il dibattito dell’altro giorno alla festa di Atreju contribuisca a restituirci il poeta di Casarsa sotto una luce nuova, inedita, imprevista, e soprattutto non saprei proprio dire quali sono gli aspetti della tradizione politica della destra italiana che grazie al confronto con l’opera di Pasolini, ormai esauriti, si vogliono sottoporre a revisione critica.

La destra uguale a se stessa

Vedo, se mai, il contrario. Vedo un preoccupante «a fortiori». Perché, iniettandosi dosi robuste di pasolinismo – e qui dico non tanto Pasolini, quanto quell’impasto generico di condanna della società dei consumi, di denuncia della mutazione antropologica, di orrore per l’omologazione, di critica della tolleranza, di rifiuto del mercato – non ci si allontana di molto, a destra, da piste già battute, da mitologie e retoriche già usate e abusate, e in definitiva da un’insofferenza verso i capisaldi del pensiero costituzionale moderno, che invece – così almeno si era capito – si vogliono dare per definitivamente acquisiti. Dritto per dritto: Pasolini serve per fare una destra conservatrice moderna, o per riciclare quella vecchia, antimoderna? Per stare nel Palazzo, o per processare il Palazzo? Dubito, infatti, che possa servire a entrambe le cose. E dubito pure che possa servire a mostrarsi di mentalità aperta, se non si va molto oltre la poesia sui poliziotti, il no all’aborto e le magliette con il suo volto austero, il mento squadrato poggiato sulla mano. Forse, se invece di limitarsi a servirsene per rifare le polemiche e le discussioni in cui Pasolini si infilava con ardore, lo si studiasse dal lato più resistente, dal lato del suo lavoro di poeta, della sua capacità di contestazione permanente delle forme e delle istituzioni della letteratura, se ne caverebbe un maggiore nutrimento intellettuale. E, chissà, forse anche un contributo originale nella costruzione di uno spazio civile e pubblico libero dai cliché.

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