Giorgia Meloni e Volodymyr Zelensky abitano una scena che è ormai poco politica e molto teatrale, mediatica, quasi installativa. Appaiono come opere viventi, costruite per stare dentro il tempo accelerato dell’immagine. Meloni è un personaggio che nasce dal corpo. Corpo della voce, innanzitutto. Una voce che non chiede permesso, che incide lo spazio come un graffio poliglotta in salsa romanesca. È una leader che ha capito – forse prima di altri – che la politica oggi è una questione di ritmo e riconoscibilità, alla fine uno slang, anzi un dialetto. Il suo immaginario non è internazionale, futuribile, non promette utopie: lavora su un passato locale semplificato, reso slogan, trasformato in oggetto maneggevole. Come certe operazioni di appropriazione pop, Meloni non inventa, riassembla. Prende simboli, parole, posture, e li rende funzionali a una narrazione di sé come eccezione: donna, madre, outsider, e allo stesso tempo centro del sistema. È una contraddizione che funziona perché non chiede coerenza, chiede adesione emotiva.
Zelensky e la “sottrazione”
Zelensky, al contrario, è un personaggio che nasce dalla sottrazione. Ha cancellato il vestito del potere per indossare una divisa che è quasi un costume anti-cinematografico. Eppure viene dal cinema, dalla commedia, dalla finzione. Sa perfettamente che ogni apparizione è una scena. Il suo volto sgualcito, la barba irregolare, le magliette militari sono elementi di una performance continua che tiene insieme dramma e serialità. Il piccolo Zelensky governa un paese in guerra, ma anche e soprattutto una narrazione globale del conflitto. È diventato un’icona transmediale, riproducibile, citabile, consumabile. Un personaggio tragico che vive dentro la logica dei feed.
Politica e identità
Tra Meloni e Zelensky, quando s’incontrano, si percepisce che non c’è un dialogo diretto, ma una consonanza strutturale: entrambi hanno compreso che la politica si gioca sull’identità: altro che programmi! Ciò che si fa, conta poco; è decisivo ciò che si incarna. I due leader sono corpi-segno. Opere aperte, costantemente aggiornate.
Comparse e non protagonisti
Il problema è che si posizionano sotto i riflettori come se fossero protagonisti, mentre sempre più spesso assomigliano a comparse ben illuminate. Personaggi qualche volta centrali nell’inquadratura, certo, ma con il copione già scritto altrove e da altri. È evidente che la loro forza non sta più nel decidere, bensì nel fingere di figurare bene in un teatro del potere che ha cambiato regista.
Il ruolo di Giorgia
Meloni recita la parte della statista. Lo fa con disciplina, con una postura che sembra studiata davanti allo specchio della Storia. Parla di sovranità, di interesse nazionale, di centralità dell’Italia, mentre il palcoscenico reale è occupato da forze che non hanno nulla di nazionale. Il suo è un ruolo di raccordo, non di comando. È la mediatrice di un equilibrio che non nasce a Roma ma attraversa Washington, Mosca, i mercati, le crisi energetiche, le paure collettive. La sua performance è tutta interna al codice del potere occidentale, ma senza accesso alla stanza-matrice dove si congegna la forza del linguaggio. Un’attrice brava a stare in scena, meno libera di quanto voglia far credere.
Volodymyr l’eroe
Zelensky è un personaggio ancora più tragico. La sua narrazione è costruita sul sacrificio, sulla resistenza, sull’eroismo morale. Ma l’eroismo, nella geopolitica contemporanea, è solo un ornamento. Zelensky si rivolge al mondo come se il mondo avesse ancora voce in capitolo. In realtà parla a un algoritmo di alleanze, forniture, interessi militari. Il suo corpo stanco è diventato un’icona necessaria, quasi obbligatoria, per tenere viva una guerra che altri amministrano a distanza. Non decide i tempi, non decide le condizioni, non decide l’uscita. Interpreta il ruolo dell’indispensabile mentre viene lentamente reso sostituibile. A quando le prossime elezioni in Ucraina?
Trump in scena
Nel frattempo Trump osserva. Trump non recita: contratta. Non ha bisogno di valori, ha bisogno di numeri. È il mercante perfetto travestito da clown. Quando vorrà tornare al centro della scena, lo farà per rimettere tutto sul tavolo come una partita di poker sporco: territori, alleanze, vite, soldi. L’Ucraina non è una causa, è una leva. L’Europa non è una comunità, è una spesa. Trump ignora le ideologie e decide per vantaggio personale elevato a geopolitica. Un gesto artistico radicale, se vogliamo: il potere ridotto alla sua forma più sincera.
Putin il “monumento”
E poi c’è Putin. Che non finge nemmeno lontanamente di essere moderno. La sua volontà autarchica è un’ossessione museale: Stato, territorio, controllo, durata. Non chiede consenso, non cerca empatia, non vuole piacere. Putin vuole resistere al tempo come un monumento scolpito in qualche materiale tossico che in Occidente si presumeva già vietato all’uso. Mentre tutti comunicano, lui accumula. Mentre gli altri fingono di discutere, lui aspetta. È l’unico che non ha bisogno di performance perché la sua idea di potere è muta, sorda e perfettamente coerente.
La grande “installazione collettiva”
Nel definire questo triangolo, Meloni e Zelensky sono utili e irrilevanti allo stesso tempo. Utili come interfacce, come schermi, come volti rassicuranti o tragici da offrire al pubblico. Irrilevanti nelle decisioni reali, che scorrono sotto il tavolo come correnti marine profonde. Fingono di significare qualcosa perché il sistema ha bisogno di questa finzione democratica, di questo teatro istituzionale dove si parla molto per decidere poco. È una grande installazione collettiva: leader che declamano, summit che promettono, conferenze stampa che simulano controllo. Il pubblico applaude, commenta, prende posizione. Intanto gli interessi di Trump e la volontà ferma di Putin ridefiniscono lo spazio reale, quello dove non servono hashtag né inni.
Il destino dei leader di Roma e Kiev
Meloni e Zelensky resteranno in scena ancora un po’, finché serviranno i caratteristi, cioè gli interpreti delle figure di contorno e di passaggio tipiche di ogni narrazione teatrale. Poi verranno archiviati come opere datate, testimonianze di un’epoca in cui si fingeva ancora di credere che la politica fosse una questione di tante persone, alcuni personaggi e qualche protagonista in carne e ossa. Insomma, di una compagnia di giro fatta di mestieri e vocazioni. In realtà è già da tempo già un’altra cosa: un dispositivo di puro artificio spettacolare per nasconderne il funzionamento e lo scopo. Che purtroppo è lo stesso nei secoli e nei secoli: fare affari. E negli affari importanti – non c’è da illudersi – sono in pochissimi e sempre gli stessi a decidere lontano dagli occhi dei molti, benché chi resta sul palco continui educatamente a recitare, fingendo di conoscere il copione e di poter reinterpretare la parte assegnata in modo originale. Questo forse spiega perché Meloni e Zelensky e alcuni altri leader europei immaginano di contare ancora qualcosa. Perciò parlano, parlano, parlano.









