Lega e M5S condizionano governo e opposizioni, Meloni oscilla tra Trump e Bruxelles, il PD si smarrisce: il sistema rischia l’implosione.
L’Italia è nelle mani di una forte minoranza di blocco, pro-Putin, di una maggioranza pro-Trump e di una super maggioranza di fatto anti-Ue. L’America dà il benservito (definitivo?) all’Europa, Mosca mette una pietra tombale sugli (inutili) tentativi di fermare il conflitto in Ucraina e minaccia il Vecchio Continente con parole di guerra. In questo contesto la politica italiana è vittima di una somma di contraddizioni e debolezze che la espongono al rischio di implosione. Come accadde all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, quando crollò la Prima Repubblica.
Il fronte che ammicca al Cremlino
Ma andiamo con ordine, partendo dalla coalizione occulta, che controllando un quarto abbondante del Parlamento, condiziona la politica italiana su una questione dirimente come l’atteggiamento da tenere, come singola cancelleria e in sede europea e Nato, nei confronti della politica neo-sovietica del Cremlino. La Lega conta su 65 deputati e 29 senatori, il Movimento 5 Stelle su 49 parlamentari alla Camera e 26 al Senato. Sommati insieme, formano un fronte di 114 deputati, ovvero il 28,5% dei 400 totali, e di 55 senatori, pari al 26,83% dei 205 complessivi (inclusi i 5 senatori a vita).
È il fronte giallo-verde, nato ai tempi del primo governo Conte (giugno 2018) cementato dalla comune (per non dire unanime) posizione sulla Russia di Putin, e che non si è mai dissolto – anzi, si è rafforzato con l’invasione russa dell’Ucraina, dal febbraio 2022 in poi – nonostante la rottura che nel settembre 2019 portò il primo presidente del Consiglio dichiaratamente sovranista (per sua stessa ammissione) a spostarsi a sinistra e senza colpo ferire fare il governo con il Pd.
Il fatto è che Salvini e Conte la pensano proprio allo stesso modo: hanno simpatia personale per lo Zar moscovita (il leader leghista ne subisce il fascino e non lo nasconde, l’avvocato del popolo si trattiene e preferisce giocare di sponda), pensano che la guerra sia colpa del (presunto) espansionismo occidentale e delle (presunte) provocazioni della Nato, sostengono che Zelensky abbia sulla coscienza i morti e i feriti ucraini perché avrebbe dovuto subito arrendersi, e infine avallano la tesi che al tavolo della trattativa di pace Putin abbia il diritto di sedersi da vincitore e imporre le sue condizioni.
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Fanno da corollario a questa linea di pensiero la sintonia con Trump, laddove si spende come “amico” di Putin e “nemico” dell’Europa, e un’avversione, celata da critica costruttiva, nei confronti dell’Ue. Si dice che non si tratti di semplici scelte politiche, ma anche di legami poco dicibili, una supposizione sorretta da alcuni elementi di fatto e a cui si dovrebbe comunque dar credito in nome del vecchio precetto andreottiano secondo il quale “a pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca”. Ovviamente non dispongo di elementi probanti, tuttavia credo che non importi più di tanto sapere se la macchina di questi rapporti sia oliata o meno dai rubli, bastano le posizioni politiche per esprimere un giudizio più che netto.
Le due sponde che condizionano il sistema
Ma il fatto grave è che queste due forze, pur dislocate su sponde opposte e però così in sintonia, condizionano l’intero sistema politico: la Lega limita il governo Meloni, i 5 Stelle vincolano le opposizioni mentre sono alla ricerca di un “campo largo” in cui convivere per poi tentare di diventare maggioranza. Così l’effetto è molto più grande di quanto non sarebbe se i giallo-verdi unissero le loro forze in un patto politico esplicito. Per esempio, il partito di Salvini prima è riuscito a bloccare l’adesione dell’Italia al programma Purl della Nato (comprare armi negli Usa e regalarle all’Ucraina) e ora si frappone sia alla proroga degli aiuti militari a Kiev, che Meloni è stata costretta a rinviare a fine mese, sia alla proposta del ministro Crosetto di formare un nucleo di riservisti specializzati attivando la leva volontaria.
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Sull’altro fronte, il Pd – già culturalmente in balia di una figura (meglio non aggettivare) come quella di Francesca Albanese – evita di spendere parole chiare e definitive sul conflitto russo-ucraino per non creare un solco con il “pacifismo pacifinto” di Conte (e di Bonelli-Fratoianni), anzi finendo per sposarlo sia in Italia che in sede europea. È l’essenza del bipopulismo.
A questo si aggiunga che Giorgia Meloni, sfruttando le intemperanze del vicepremier filo-russo con cui è alleata, ha collocato il governo su una posizione ambigua, da una parte di sostegno formale all’Ucraina, ricavandone un attestato di buona condotta europeista, e dall’altra di freno in ogni sede internazionale agli aiuti a Kiev, in sintonia con le ubbie di Trump. Una posizione che finora ha venduto, sul piano internazionale come su quello interno, come di indispensabile ponte tra le due sponde dell’Atlantico, ma che di fatto si è tradotta in un filo-trumpismo esercitato senza rompere con Bruxelles.
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Cosa che le è servita per scalare la classifica della longevità a palazzo Chigi, ma che ha messo l’Italia in una posizione di marginalità in Europa – specie nell’ambito dei Volenterosi, cui Meloni si è ben guardata dall’aderire, facendo il minimo sindacale per non esserne del tutto esclusa – senza avere alcun vantaggio dagli Stati Uniti, come ha dimostrato la vicenda dei dazi. Ambiguità che è stata resa possibile dalla speculare doppiezza della sinistra, condizionata non solo dal filo-putinismo di Conte, ma anche dall’europeismo a giorni alterni di Schlein e dall’a-europeismo del fronte massimalista. Ed ecco la super maggioranza che è contro l’Europa, o comunque guarda ad essa con sufficienza e distacco.
La politica italiana che abbonda di pro-Putin e pro-Trump
A questo fate la somma, e vedrete che il nostro sistema politico è animato da pro-Putin, ruffiani di Trump, anti-Ue ed europeisti all’acqua di rose. La domanda che ne consegue è: può un sistema siffatto resistere alle pressioni prodotte dalla disarticolazione dell’ordine mondiale così come si era configurato dalla guerra fredda in poi? La mia tesi, e non da oggi, è che il cortocircuito sarà inevitabile, e produrrà un cataclisma al cui confronto quello suscitato da Tangentopoli, con la fine della Prima Repubblica e il passaggio alla cosiddetta Seconda, verrà declassato a semplice nubifragio.
Allora la caduta del muro di Berlino (novembre 1989), la dissoluzione dell’Unione Sovietica (dicembre 1991), la crisi del Patto di Varsavia e la caduta della “cortina di ferro”, con la conseguente fine degli equilibri mondiali stabiliti a Yalta, furono le premesse di quanto avvenne in Italia, paese cerniera tra Est e Ovest, dal 1992 in poi.
Oggi la vicenda ucraina racchiude in sé le grandi questioni di questo primo quarto di secolo: il tramonto degli Stati Uniti come baluardo dell’Occidente e perno della solidarietà euro-atlantica; la fine del multilateralismo e l’avvento della geopolitica della forza come strumento che sostituisce il diritto internazionale nel dirimere i conflitti (e farne nascere di nuovi) e indirizzare la globalizzazione economica (che resta, ma cambia di segno); la rinascita del progetto Unione Sovietica e relativa volontà egemonica; il confronto tra le democrazie e regimi autoritari in un contesto in cui si impone l’ideologia imperiale; il bivio europeo tra una definitiva integrazione politico-istituzionale e una disgregazione di stampo sovranista. Ecco perché, anche se lo si vuole negare, c’è in ballo molto di più delle sorti del martoriato Paese che funge da cerniera tra l’Est russo e l’Ovest europeo.
Quando accadrà il cataclisma? Dipende da Putin, da Trump e dalla risposta europea. Ma un calcolo è presto detto: se tre decenni fa, tra le pietre cadenti di Berlino e le elezioni del 1992 (le ultime della Prima Repubblica) e quelle del 1994 (le prime della stagione bipolare), trascorsero rispettivamente 29 e 53 mesi, oggi non è azzardato fare il paragone calcolando il tempo che è passato da quel maledetto 24 febbraio 2022 in cui la Federazione Russa invase l’Ucraina: a Natale saranno 46 mesi.
E se si andrà oltre, visto l’esito delle cosiddette trattative di pace che altro non sono che un negoziato simulato con l’obiettivo di procurare una rottura tra Kiev e Washington, e a cascata tra Usa e Ue e poi dentro l’Unione Europea, appare evidente che il quadro geopolitico planetario si farà ancora più complesso e drammatico di quanto già non sia (The Donald, con la sua consueta eleganza, l’ha definito “un casino”). E per noi, di conseguenza, verrà il momento in cui, volenti o nolenti, saremo costretti a prendere atto che il nostro sistema politico e istituzionale non regge più. Esattamente come trent’anni fa.









