La politica di pace di Trump che dura solo fino a che i riflettori restano accesi
Due frasi, a migliaia di chilometri di distanza, rappresentano la cifra dell’attuale instabilità internazionale. Da un lato, c’è l’auto-celebrazione edulcorata del presidente degli Stati Uniti Donald Trump e del suo presunto ruolo di mediatore. Non pronunciata ma probabilmente dettata nell’introduzione al documento della nuova Strategia per la sicurezza nazionale americana, presentata venerdì scorso, ma non per questo meno significativa.
«Nel corso di appena otto mesi, abbiamo risolto otto conflitti – tra Cambogia e Thailandia, Kosovo e Serbia, Repubblica democratica del Congo e Ruanda, India e Pakistan, Israele e Iran, Egitto ed Etiopia, Armenia ed Azerbaijan e la guerra a Gaza con il ritorno di tutti gli ostaggi». L’altra l’ha sentenziata ieri il primo ministro thailandese Anutin Chrnvirakul: l’accordo di pace con la vicenda Cambogia è nullo, la guerra – la stessa citata al primo posto tra i conflitti risolti dal mirabolante “Mister Wolf” della Casa Bianca – riprende.
Salta l’accordo di Trump tra Thailandia e Cambogia
Dallo scoppio delle ostilità con la Cambogia, lo scorso luglio, i militari thailandesi hanno guadagnato una influenza nei palazzi del potere di Bangkok e, a pochi mesi dalle elezioni, i falchi di Bangkok sembrano aver soffiato sul fuoco del conflitto. Niente di meglio che una facile vittoria militare sulla pelle di qualche villaggio di confine per migliorare la propria posizione.
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Un ragionamento che sicuramente alle latitudini di Washington capiranno senza bisogno del traduttore, dal momento che “il presidente della pace” minaccia a giorni alterne di attaccare il Venezuela per rilanciare la propria immagine.
Ruanda e Congo
Una pantomima – quella di Trump il pacificatore – che è andata nuovamente in scena giovedì scorso, quando Trump ha ospitato i leader della Repubblica democratica del Congo e del Ruanda per firmare un accordo di pace tra i due Paesi. Bisognoso di successi, il tycoon si è abbassato a fare un banale remake dal momento che un accordo identico è stato firmato nel giugno scorso. La realtà sul campo però racconta un altro film. Soltanto ieri si sono contati almeno 36 morti a causa delle violenze che continuano a tormentare la regione del Kivu, nell’est del Paese.
Gli scontri tra l’esercito regolare congolese, la milizia Wazalendo, il gruppo paramilitare M23 e vari gruppi ribelli, a cui si aggiungono il banditismo tribale e la presenza di gruppi mercenari al servizio delle nazioni vicine e delle compagnie minerarie, hanno da tempo intrappolato la Repubblica democratica del Congo in una spirale di violenza senza fine.
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Sempre ieri l’Onu ha certificato che circa 7.000 soldati ruandesi sotto mentite spoglie continuano a combattere le forze congolesi nel Kivu, senza alcun segno di volersi ritirare. Ma poco importa: la tentazione della photo opportunity era troppo forte, così come quella di promettere guadagni record grazie al rapido saccheggio di quel forziere a cielo aperto di risorse minerarie che è il Congo.
Il caso di Gaza
A proposito di piani maestosi e investimenti, c’è poi il conflitto israelo-palestinese. Fino a poco tempo fa presenza ubiquitosa sui media e nei consessi, a circa due mesi dalla firma degli accordi di Sharm el Sheikh, lo scorso 13 ottobre, il tema della pace a Gaza sembra essersi volatilizzato. All’ombra della distrazione internazionale, il cessate il fuoco giace incompleto tra le macerie della Striscia: nei primi cinquanta giorni dalla sua firma almeno 357 civili palestinesi, sono stati uccisi nei raid dall’aeronautica israeliana o dopo che i soldati di Tel Aviv hanno aperto il fuoco nella cosiddetta zona di occupazione.
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Le fazioni palestinesi hanno ripreso il controllo delle strade e portato avanti truci regolamenti di conti, come dimostra anche l’omicidio in un’imboscata di Yasser Abu Shabab, un ex jihadista divenuto un collaborazioniste dell’esercito israeliano durante la guerra a Gaza. Ancora non è chiaro quali Paesi siano disposti a fare parte della ipotetica forza di pace né quale sarà il mandato internazionale di quest’ultima. Non è chiaro chi governerà Gaza né chi pagherà per la ricostruzione della Striscia distrutta da due anni di guerra.
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Secondo le indiscrezioni, il tycoon vorrebbe annunciare l’inizio della Fase 2 del suo piano di pace prima di Natale, così da rispondere ai suoi critici. Ma il negoziato è ancora in alto mare, dal momento che – come ha rivelato l’emiro del Qatar, uno dei mediatori (veri) in campo – senza il ritiro completo dell’Idf dalla Striscia sarà molto difficile convincere Hamas ad accettare un disarmo supervisionato e l’ingresso di forze straniere a Gaza.
La pace a beneficio delle telecamere
Ma la verità è forse questo non importi più di tanto: finora tutte le iniziative diplomatiche di Trump sono apparse come dei fragili cerotti, tesi a durare soltanto fino al primo flash a beneficio delle telecamere. Non c’è alcuna idea né tantomeno volontà per chiudere effettivamente le crisi in atto. Più che una strategia volta a risolvere i problemi, quella di Trump appare una geopolitica del “cambio canale”: una firma, una foto e si passa al prossimo dossier, poco importa se la pace appena conclusa resti poi lettera morta.
La diplomazia del tycoon si adatta a quello che gli è sempre venuto meglio, fare spettacolo e vendere il suo miglior prodotto, vale a dire sé stesso. A tutti gli altri non resta che impararne il vocabolario, per capire come tradurre le sue continue uscite. A cominciare dalla pace che si scrive “cessate il fuoco” e si legge “spegnere i riflettori”.









