Dalla retorica del declino alla risposta politica: perché il continente deve trasformare la propria vulnerabilità in un progetto di potenza democratica
Nel nuovo documento sulla strategia di sicurezza nazionale firmato dalla Casa Bianca, l’Europa viene descritta come un continente avviato verso la scomparsa, “irriconoscibile in vent’anni o meno” se continuerà su questa strada: troppa immigrazione, troppa Ue, troppe regole, troppo poco orgoglio nazionale.
Forse è il caso di rovesciare la domanda: davvero l’Europa può “sparire”?
“Noi civiltà ora sappiamo di essere mortali – scrisse Paul Valéry nel 1919 – abbiamo constatato che una civiltà ha la stessa fragilità di una vita”.
La consapevolezza della propria fragilità
L’Europa usciva dalla carneficina della Grande Guerra e intuiva che la propria centralità nel mondo non era più garantita. Da allora, la storia del continente è stata un lungo tentativo di rispondere a quella consapevolezza: siamo mortali, ma possiamo diventare responsabili. La retorica del «vent’anni e sparite» non ha nulla a che vedere con un’analisi seria dei problemi europei, che esistono, eccome, tra stagnazione, diseguaglianze e impotenza geopolitica.
Il racconto apocalittico del declino
È una narrazione apocalittica selettiva: sceglie pochi ingredienti e li impasta in un racconto di sostituzione etnica e di declino virile. Non è nuova. Nel 2006 Mark Steyn pubblicava America Alone, bestseller conservatore che annunciava la fine dell’Occidente per la combinazione fra welfare, denatalità e crescita demografica musulmana. Oggi quel filone arriva direttamente nel cuore del potere americano ed europeo: Bannon, le destre identitarie, la “Nationalist International” di cui parla Anne Applebaum, la rete globale dei partiti anti-UE, da Varsavia a Vienna, da Roma a Bruxelles. Il copione è sempre lo stesso: si descrive un’Europa vecchia e stanca; si individua un colpevole esterno (i migranti) e uno interno (la “casta europea”, la burocrazia di Bruxelles); si propone una cura miracolosa a base di muri, sovranità “piena”, religione come identità, “ritorno” alla nazione.
L’Europa reale contro la caricatura etnica
Qui il paradosso è evidente, perché chi grida che «l’Europa sparirà» non difende l’Europa, ma una sua caricatura etnica, bianca, cristiana, omogenea, che storicamente non è mai esistita. L’Europa reale è sempre stata contaminazione, minoranze, città-porto, ebrei e greci, arabi di Sicilia e andalusi, slavi, fiamminghi, rom. È sempre stata – nel bene e nel male – un laboratorio di mescolanze. E allora quando Trump parla di Finis Europae, più che evocare un rischio sta indicando un desiderio. Non è l’Europa a essere in procinto di sparire: è il progetto politico che da Kiev a Bruxelles si oppone all’autocrazia globale a essere sotto attacco.
Autocrazie come piattaforme transnazionali
Senza quel progetto – in un mondo diviso in sfere d’influenza, con Stati deboli, dipendenti, ricattabili; un mondo in cui la forza è più legittima del diritto – l’Europa può ridursi a terra di conquista in quello che a tutti gli effetti, fra Putin e Trump, assomiglia a un nuovo patto Molotov-Ribbentrop. Esiste davvero questo rischio? Sì, nella misura in cui le autocrazie del XXI secolo non sono più sistemi autarchici, ma reti transnazionali di influenza. Sono potenze che funzionano come piattaforme: raccolgono dati sulle fratture delle società democratiche, alimentano i populismi identitari, finanziano partiti estremisti, manipolano elezioni e opinioni pubbliche, sfruttano l’ansia economica e la paura migratoria, propongono leadership forti come antidoto alla complessità. Non vogliono invadere l’Occidente: vogliono svuotarlo dei suoi presupposti morali.
La minaccia della post-democrazia
Colin Crouch lo aveva previsto vent’anni fa: il nemico interno della democrazia non è più il colpo di Stato, ma la post-democrazia, il sistema in cui tutto continua a funzionare formalmente – elezioni, Parlamenti, media – ma nulla conserva il peso che aveva. Nella post-democrazia si vota, ma le alternative politiche si riducono a semplice marketing; la partecipazione si atrofizza e viene sostituita dalla rabbia algoritmica; il dibattito pubblico si polarizza fino all’irriconoscibilità; i diritti diventano beni negoziabili. È qui che l’autocrazia globale trova la sua occasione: non deve abbattere le democrazie, deve solo convincerle che non meritano la fatica di essere difese.
Trump, Putin e la nuova autocrazia
Trump, consapevolmente o meno, parla a quell’Europa che si percepisce stanca: «Non esisterete più». Putin lavora per trasformare quella stanchezza in profezia autoavverante. La guerra in Ucraina, da questo punto di vista, è un test della nuova autocrazia globale. Putin non vuole solo vincere sul campo: vuole insegnare al mondo che i confini possono essere spostati e che la sovranità appartiene al più forte. E vuole far credere all’Europa che resistere sia inutile.
Perché l’Europa è l’alternativa da abbattere
Ma perché l’Europa è così centrale nel mirino delle autocrazie? Non per la sua forza, ma per la sua alternativa. È l’unico luogo al mondo che abbia tentato – con conflitti, lentezze, fallimenti – di costruire un ordine politico postnazionale fondato sul pluralismo, sullo Stato di diritto, sul welfare, sulla memoria dei crimini del Novecento, sulla limitazione del potere, sul compromesso come forma alta della politica. Non è un caso che Putin parli di “decadenza europea” con più ossessione di quanta ne riservi alla NATO. Non è un caso nemmeno che molti movimenti illiberali del continente ricevano sostegno politico, logistico o mediatico dalla Russia. L’Europa è il contro-modello dell’autocrazia. E per questo deve essere rappresentata come fragile e delegittimata.
L’Europa che può sparire davvero
Se smette di esistere, il mondo diventa più semplice: un mondo di potenze che si spartiscono vassalli, un mondo in cui la legge è un’arma per disciplinare i deboli. Torniamo, allora, alla frase di Trump: «L’Europa potrebbe non esistere più». Sì, c’è un’Europa che può scomparire, ma è quella burocratica, lenta, indecisa. Può indebolirsi fino a diventare un museo geopolitico. Ma l’Europa come civiltà politica può sparire solo in un modo: se rinuncia a difendere la propria ragione d’essere, cioè l’idea che la persona viene prima dello Stato e la legge prima del leader.
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Non diventare ciò che si combatte
Il mondo delle autocrazie globali è già qui: Russia, Cina, le reti sovraniste, gli algoritmi che trasformano l’indignazione in plebiscito permanente. La post-democrazia occidentale è visibile nella disaffezione, nell’apatia politica, nell’oscillazione continua tra rabbia e impotenza. Il compito dell’Europa, pertanto, oggi è sottilissimo: non diventare come ciò che combatte. L’Europa sparirà solo se sceglierà la stanchezza, l’indifferenza, la rassegnazione alla propria irrilevanza; se smetterà di credere nei valori che ne hanno fondato l’esistenza; se si abituerà a delegare la propria sicurezza agli altri, rinunciando a una voce autonoma.
E, soprattutto, se la difesa dell’Ucraina verrà percepita come un lusso geopolitico e non come una condizione della propria sopravvivenza.
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L’Ucraina per la sopravvivenza europea
Trump sta svolgendo in questo contesto – in questo allineamento con Putin – un ruolo decisivo di potente acceleratore del paradigma autocratico globale, proponendosi come vettore di delegittimazione della democrazia liberale. Lui e i suoi consiglieri parlano di «civilisational erasure» per costruire un’alleanza globale dei nazionalismi: un fronte che va dai movimenti anti-UE alle destre religiose americane, passando per i regimi che vedono nella democrazia liberale un ostacolo.
Il punto, per noi europei, è decidere se accettare questo rovesciamento o contestarlo in nome di un’altra idea di Europa: più consapevole della sua fragilità, più esigente nella difesa dei propri principi, più determinata a non lasciare che il suo destino venga scritto altrove.










