Il direttore del Censis Massimiliano Valerii commenta i dati salienti del nuovo rapporto Censis
l nuovo Rapporto Censis fotografa un Paese che corre veloce sugli schermi e va sempre più piano nella testa. La spesa esplosiva per i device e quella in caduta libera per la cultura segnalano una mutazione silenziosa, quasi antropologica. Dietro i numeri, l’idea inquietante di un’Italia iperconnessa ma meno riflessiva, che confonde scroll compulsivo e conoscenza. Con il direttore del Censis Massimiliano Valerii esploriamo le faglie che attraversano istruzione, demografia, immigrazione e lavoro. E proviamo a capire se la rivoluzione tecnologica stia ampliando le possibilità o solo allargando disuguaglianze e crepe del tessuto sociale.
Direttore, mentre la spesa per smartphone e computer esplode del 723%, quella per la cultura crolla del 34,6%: non è che stiamo allevando una società iperconnessa ma culturalmente anoressica?
«Il tema dell’istruzione e della cultura ha raggiunto livelli d’allarme. Già in passato si è parlato della “fabbrica degli ignoranti”. La spesa è crollata di poco più di un terzo per il crollo dei lettori di giornali e libri. L’offerta culturale sta diventando un dispositivo esperienziale: cioè “non avvicinatemi un libro”, ma aumentano gli italiani che vanno a teatro, al cinema, ai concerti, e che visitano musei, monumenti, mostre, festival culturali. Quando l’offerta diventa un’esperienza, allora viene premiata dagli italiani; mentre c’è una flessione preoccupante della lettura di libri e giornali».
Non rischiamo la demonizzazione digitale?
«Non è una demonizzazione, ma dobbiamo sapere che il nostro smartphone diventa un imbuto cosmico. Però quando assortiamo la nostra dieta mediatica, in cui mettiamo tanti mezzi diversi e sempre più escludiamo giornali e libri, poiché ogni mezzo ha le sue caratteristiche, impoveriamo tutte le facoltà stimolate dalla lettura su carta – quelle di tipo riflessivo, il giudizio. Si accentuano invece quelle stimolate dagli schermi, dalla televisione ma anche dagli smartphone: le reazioni emotive, il pregiudizio anziché il giudizio. Un conto è leggere 1.200 pagine di Guerra e pace, un altro è scrollare in pochi secondi uno schermo. Senza dire che nessun mezzo di comunicazione è per sua natura “neutrale”».
Spendiamo tre volte più in device che in libri e giornali, e poi ci stupiamo del dibattito pubblico sempre più povero?
«Sì, anche per questo: più povero culturalmente. Agiamo sempre più sulle corde dell’emotività – rabbia, rancore, indignazione – e sempre meno su analisi e riflessione. Dobbiamo prendere atto di un cambiamento addirittura antropologico».
Nel 2045 un italiano su tre sarà over 65: chi pagherà il costo sociale di questa longevità, mentre la partecipazione politica evapora e i giovani disertano i comizi?
«Il primo aspetto è che siamo in una ineluttabile deriva demografica: ci saranno sempre più anziani e sempre meno giovani. E questo sta già cambiando molto anche il mondo dell’occupazione: lo vediamo nelle effervescenze del mercato, nel numero record degli occupati. Tuttavia, se guardiamo la nuova occupazione dei primi dieci mesi dell’anno, scopriamo che riguarda persone dai 50 anni in su. Tra i giovani gli occupati sono diminuiti e sono diminuiti anche gli inoccupati, perché aumentano gli inattivi».
Perché i giovani si tengono lontani dal lavoro?
«C’è un disincanto rispetto al lavoro come strumento per acquisire una posizione economica, come mezzo per migliorare la propria condizione sociale. Del resto, difficile dargli torto: alla fine del 2024 il valore reale dei salari, al netto dell’inflazione, è inferiore dell’8,7% rispetto al 2007. L’altro aspetto è la sostenibilità del sistema dinanzi all’aumento della domanda di salute e alla pressione sulle pensioni, con questa piramide invertita».
LEGGI ANCHE Censis, De Rita: “Senza ceto medio non c’è democrazia”
Cosa accadrà?
«Questo comporterà due ripercussioni: una bassa crescita dell’economia e una crescita vertiginosa del debito pubblico. Abbiamo parlato del “grande debito”: non quello di un Paese sottosviluppato, ma di economie avanzate. Nel 2030 il rapporto debito/Pil toccherà il 37%, e questo comporterà un progressivo ridimensionamento del sistema di welfare. Il caso della Francia, che non riesce a fare la riforma delle pensioni e deve effettuare un taglio del 40% sulla legge di bilancio, è esemplare. L’Italia spende più per interessi che per investimenti».
Si potrebbe obiettare che lo spread non è mai stato così basso.
«Certo, questo è merito del rigore del nostro ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e anche degli interessi sul debito pubblico tedesco. Ma ciò ha significato non aumentare, come pure sarebbe necessario, il Fondo sanitario nazionale: siamo costretti a contingentare la spesa. Gli interessi sul nostro debito nel 2024 sono stati pari a 85,6 miliardi, superiori all’ammontare degli investimenti pubblici (78,3 miliardi), nonostante l’effetto del Pnrr: dieci volte inferiori a quanto dedichiamo alla protezione dell’ambiente (7,8 miliardi). Siamo stati premiati da un miglioramento delle agenzie di rating perché abbiamo messo a posto i conti riducendo il deficit. Lei immagini una multinazionale che licenzia mille dipendenti: i suoi valori schizzano in borsa, perché se tagli il personale il bilancio migliora. Ma hai messo per strada mille persone. Giorgetti viene premiato, usciamo dalla procedura d’infrazione, ma questo vuol dire non alimentare il Fondo sanitario. Il nostro debito, che a settembre ammontava a 3.081 miliardi di euro, riguarda altri Paesi europei in modo strutturale: è legato alla transizione demografica e alla costante riduzione della popolazione in età attiva».
Cinque milioni e mezzo di stranieri residenti, oltre due milioni divenuti italiani negli ultimi vent’anni: come si concilia questa realtà con un Paese che teme l’immigrazione?
«L’immigrazione, certo, può essere una risposta. Tuttavia bisogna dire, con grande onestà, che non c’è solo un problema di inadeguatezza delle politiche di integrazione: c’è anche il problema di un Paese che accetta gli stranieri quando cerca una babysitter o una badante, ma è riluttante quando si tratta di concedere agli immigrati gli stessi diritti. Il 62% pensa che i flussi vadano limitati; il 54% vede negli immigrati un pericolo per l’identità nazionale; solo il 37% li ammetterebbe ai concorsi pubblici e il 38% concederebbe loro il diritto di voto alle elezioni amministrative. Si scontrano dunque due ragioni: da una parte siamo dentro una ineludibile transizione demografica, dall’altra c’è la paura – la paura della perdita di identità. E non si può liquidare questa paura con un atteggiamento da anime belle, in termini astratti, come frutto di pregiudizi. Non si può non considerare questa maggioranza di italiani diffidenti, che accoglie le badanti quando servono ma poi non è disposta a concedere gli stessi diritti degli autoctoni».
Il 72% degli studenti usa l’IA per studiare e il 46% è frustrato da chi prende voti grazie all’algoritmo: è la scuola che non regge il passo, o è l’IA che sta rivelando l’imbarazzo di un sistema educativo rimasto analogico?
«Quest’ultima considerazione è senz’altro vera. Ma, come spesso succede in presenza di una rivoluzione tecnologica, ci si divide tra apocalittici e integrati: chi vede nell’IA già il mostro e ci immagina tutti più stupidi, o immagina il mostro nei posti di lavoro che non ci saranno più; e chi, come i tecno-entusiasti, già pensa alle magnifiche sorti e progressive che ci attendono. In realtà il punto di vista più corretto è che siamo dinanzi a una tecnologia in corso: non siamo in grado di dire quali saranno gli effetti nei processi produttivi. Tra oggi e sei mesi fa c’è già un abisso. L’unica cosa che possiamo dire è che l’impatto riguarderà soprattutto quelle professioni intellettuali che richiedono competenze cognitive. La rivoluzione industriale riguardò le mansioni manuali, esecutive, i lavoratori con basso titolo di studio. Ora avverrà il contrario, e il coinvolgimento intellettuale sarà maggiore».
Gli intellettuali di domani si chiameranno “Siri”?
«È l’errore che non bisogna commettere».








