La “censura” di 90 intellettuali di sinistra nei confronti della casa editrice “Passaggi al bosco” ripropone la lotta tra moralismo e libertà
Ogni anno le fiere del libro diventano piccole Versailles del conformismo: corridoi luccicanti, intellettuali che si pavoneggiano come damerini radical chic, e poi, in fondo a qualche padiglione, l’immancabile stand dell’editore “impresentabile”, quello in odore di neonazismo, fascismo, reazionarismo, o qualsiasi altra etichetta tossica renda più semplice l’esercizio preferito della sinistra benpensante: la scomunica preventiva.
Gli intellettuali offesi
Basta uno stand con un’aquila troppo stilizzata, un carattere gotico, un titolo che strizza l’occhio a genealogie pericolose, e subito parte la processione degli offesi. Alcuni artisti e intellettuali di sinistra vi partecipano con l’aria assorta di chi compie un dovere morale; altri con l’entusiasmo di chi ha trovato, dopo mesi di tedio culturale, un nemico finalmente all’altezza della propria indignazione.
L’epidemiologia degli scaffali
Alla fiera del libro di Roma si è inaugurata in questi giorni una nuova specialità para-accademica: l’epidemiologia degli scaffali. C’è chi ha dichiarato, con l’autorità di una virologa del simbolico, che i libri neofascisti sono come il Covid: se non sei vaccinato devi isolarli in quarantena (Nathalie Tocci, 8 e mezzo, mercoledì, la 7). E l’immagine è così comicamente involontaria, da meritare un applauso. Perché rivela l’essenza del nostro tempo: non si teme il virus delle idee, si teme la possibilità che qualcuno possa ancora pensare senza protezione.
La sinistra culturale
La sinistra culturale – quella che un tempo leggeva perfino i nemici per comprenderli, e a volte per amarli di un amore polemico – oggi considera i libri come tamponi da esaminare. Se un titolo ammicca a genealogie proibite, parte il tracciamento dei contatti: chi ha scritto, chi ha pubblicato, chi ha permesso lo stand, chi non ha protestato. Lo spettacolo dell’indignazione diventa un dispositivo di controllo più rigido di un lockdown. Com’è che una parte dell’intellighenzia progressista finisce per comportarsi come se il dissenso fosse un germe e la cultura un reparto di malattie infettive? Ma veramente credono, gli apostoli dell’etica tascabile, che la democrazia si difenda con la disinfezione preventiva delle idee? Che il mondo si protegga con la quarantena concettuale? Che l’antifascismo possa ridursi a un manuale di igiene culturale?
Il fastidio per la libertà
Forse la radice profonda della malattia di questa di sinistra è il fastidio per la libertà. Perché la libertà vera – quella di pensiero, prima di tutto – è scomoda, imprevedibile, politicamente ingestibile. E allora succede che i presunti eredi delle avanguardie finiscono a difendere il più rassicurante degli status quo. Basta guardare come inseguono le indagini delle procure: con la stessa reverenza con cui i medievali leggevano gli oroscopi. Se un magistrato apre un fascicolo, è la verità. Se un giornale amico titola “inchiesta”, è sentenza. La sinistra culturale, orfana di ideologie ma bisognosa di certezze, ha scambiato la legalità per la verità, come se il diritto fosse un oracolo infallibile.
Una nuova religione civile
È la nuova religione civile: il consenso dell’attualità presunta come dogma. Così la libertà individuale – quella che un tempo bastava da sola a fondare un’intera idea di sinistra – viene progressivamente erosa da un sospetto generalizzato verso tutto ciò che devia dal canone. Ma che sinistra è quella che teme i libri? Che sinistra è quella che considera il pensiero altrui un contagio da isolare? Che sinistra è quella che si affida alla Procura come guida spirituale? Domande che meritano diverse spiegazioni.
Il salottismo
La prima è il salottismo, che è un raffinato sistema di autoconferma reciproca. Nei salotti intellettuali contemporanei – fisici o digitali – non si discute per capire, bensì per ribadire l’identità del gruppo. E l’identità, come ogni religione civile, ha bisogno di tabù. L’editore in odore di neonazismo funziona come il capro espiatorio che permette a tutti di riconoscersi nel gesto purificatorio della scomunica.
L’integralismo ideologico
Poi c’è l’integralismo ideologico, versione aggiornata del moralismo. Molti intellettuali non si considerano più interpreti critici del mondo, ma custodi di una fragile ortodossia progressista. Non si limitano a criticare le idee estreme: pretendono che non esistano. Confondono la lotta politica con la disinfestazione del discorso pubblico. È una forma di igienismo culturale che non contempla la complessità, perché la complessità è faticosa, ambigua, rischiosa.
La coazione a ripetere
Infine la coazione a ripetere. Ma la cultura, per sopravvivere, non ha bisogno di zone rosse: ha bisogno di attrito. Si dovrebbe sempre ricordare che il nemico – anche quello ideologico – è una struttura narrativa indispensabile, a condizione che lo si conosca davvero. Eliminare il nemico simbolico impedisce di capire il reale. E discutere un libro non significa legittimarlo: significa decifrarne il linguaggio, smontarne le retoriche, rivelarne le debolezze.
I campioni del narcisismo
In questo senso andrebbero criticati i Zerocalcare, i Barbero, e gli altri campioni della sinistra narcisista e benpensante, inconsapevoli garanti del discorso fantasmatico della destra emergente. Nel grande mercato dei segni l’editore di destra radicale è l’oggetto perfetto del dispositivo di esclusione: non perché pericoloso, ma al contrario perché funzionale. È la merce-fantasma che permette alla sinistra culturale di confermare la propria immagine riflessa.
La censura
La censura, qui, non ha neanche nulla a che vedere con la conoscenza e il controllo delle idee. È una coreografia. Una difesa dell’ordine simbolico più che dell’ordine democratico. Si tratta di espellere il “corpo estraneo” prima ancora che parli, perché ciò che conta non è ciò che dice, ma ciò che rappresenta. Il sospetto di neonazismo basta e avanza: è un marchio, un codice, un ipersimbolo. Si combatte un simulacro di fascismo perché è più semplice del reale: più nitido, più maneggevole, più spettacolare. La sinistra culturale ha perso il reale: non ne governa più i processi, non ne interpreta più le fratture. Le resta il territorio dei simboli, e lì vuole esercitare la sua egemonia.
La necessità di discutere
E se invece certe manifestazioni del pensiero di destra fossero interessanti da conoscere e da discutere? Discussione significherebbe sottrarre al simbolico una parte del suo potere magico e restituirla alla banalità del discorso. Significherebbe reintrodurre il rischio, la complessità, il conflitto autentico. Ma il sistema contemporaneo detesta il conflitto autentico. Preferisce la simulazione del confronto, che è un confronto senza posta in gioco. La censura, quindi, non è repressione: è anestesia. Serve a impedire che la parola dell’altro, anche se marginale, anche se discutibile, possa generare un effetto imprevisto. L’imprevisto è l’unica vera minaccia al regime del segno.
I libri “proibiti”
Forse la verità – se ci è ancora concesso usare questa parola – è che nessuno vuole davvero leggere quei libri. Né chi li pubblica, né chi li condanna. Il loro valore sta nell’essere proibiti, non nel contenuto. E la censura contribuisce a mantenerli nello stato di aura tossica che li rende utili: utili alla propria nicchia ideologica, utili ai propri detrattori. Eppure il modo migliore per neutralizzare un simulacro sarebbe renderlo insignificante. Non vietarlo, non condannarlo, non ritualizzarlo: leggerlo. La lettura è un atto troppo reale per il teatro della censura. Forse, allora, l’unica rivoluzione possibile sarebbe abbandonare il gioco dei segni e tornare al reale dei testi. Ciò che si comprende smette di essere minaccioso. Ciò che si discute perde la sua aura. Ciò che si censura diventa immortale.










