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Carcere, adesso basta spot: servono gesti concreti

Per troppo tempo la politica ha ignorato il tema delle detenzione: ora sono indispensabili l’intervento di Mattarella e quello delle Camere

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Il presidente del Senato Ignazio La Russa propone che il governo valuti un “mini-indulto” in vista di Natale: un permesso anticipato per i detenuti prossimi alla fine della pena, così da consentire loro di trascorrere le feste in famiglia. Una misura straordinaria ma circoscritta, che riguarderebbe chi deve comunque uscire tra poche settimane o pochi mesi.

Un gesto simbolico, minimale, e proprio per questo più che mai rivelatore. Perché le parole di La Russa sono giuste, condivisibili, persino ovvie nella loro semplicità morale; e tuttavia il presidente del Senato sa perfettamente che nella maggioranza non esiste alcuna convergenza su questo tema. Sa che la Lega è contraria. Sa che il suo stesso partito, Fratelli d’Italia, ha costruito negli anni una grammatica identitaria fondata sul rigore punitivo.

L’altolà di Mantovano

E infatti le reazioni non si sono fatte attendere: il sottosegretario Alfredo Mantovano ha subito frenato, ricordando che il governo punta a “colmare il gap” di 11mila unità tra posti disponibili e presenze reali nel giro di due anni tramite interventi edilizi e riorganizzativi. Una gestione tecnico-burocratica pluriennale, insomma, che sancisce il rinvio strutturale di qualsiasi atto di clemenza.

Perché, allora, sollevare un tema caricandolo di aspettative che si sa di non poter mantenere? Perché evocare l’umanità sapendo che il sistema politico la percepisce come una minaccia e non come un dovere? Vero è, però, che le parole del presidente del Senato chiamano alla responsabilità tutti i soggetti istituzionali, non solo la maggioranza. E tanto più stridente appare il contrasto con la realtà: nessuno, finora, ha assunto infatti un’iniziativa formale su quella che è, a tutti gli effetti, una vergogna nazionale.

Nessuno tocchi Caino

Da un anno e mezzo l’associazione Nessuno tocchi Caino denuncia la condizione drammatica delle carceri italiane, gravata da sovraffollamento sistemico, suicidi in crescita, personale allo stremo, strutture fatiscenti, impossibilità di accesso alle cure e ai programmi terapeutici: elementi che rendono il carcere italiano non una parentesi del sistema giudiziario, ma il suo buco nero.

L’agenda politica immobile

Eppure l’agenda politica è rimasta immobile. Non c’è stata una riforma organica, non una discussione parlamentare vera, non un’iniziativa capace di affrontare la questione alla radice. È come se la Repubblica avesse delegato il carcere a una zona d’ombra amministrata da altri, un luogo da cui distogliere lo sguardo e che si tenta di governare con il minimo impatto simbolico possibile. Anche perché, di fatto, il Parlamento da tempo non governa più la materia penale. È stato espropriato dall’esecutivo, che procede per decreti, ritardi o priorità mutevoli.

La politica e il carcere

La penalità italiana vive così da anni dentro un regime di eccezione amministrato, dove il carcere non è più il luogo della giustizia ma il concentrato delle sue contraddizioni, fatto di marginalità, fragilità, patologie e povertà che la politica preferisce non vedere. E quando il Parlamento smette di essere il luogo in cui una democrazia discute della pena – cioè del proprio rapporto con il male, con la responsabilità, con la possibilità della rinascita – allora il carcere diventa una terra di nessuno, gestita senza una visione normativa, più che politica. In questo vuoto, anche il capo dello Stato si è limitato, finora, alla moral suasion.

Il ruolo di Mattarella

Mattarella ha richiamato più volte la dignità delle persone detenute, e i suoi interventi hanno mantenuto la fermezza sobria che caratterizza il suo stile. Ma non c’è mai stato un messaggio alle Camere: l’unico atto che avrebbe obbligato il sistema politico a misurarsi con la propria resistenza ad affrontare responsabilmente la questione. E dunque anche il richiamo del Quirinale rischia di trasformarsi in una forma nobile ma inefficace di testimonianza.

Perché allora non si interviene? Per tre ragioni, credo. La prima è che il rigore punitivo è diventato un marchio politico identitario. In un’epoca segnata dalla retorica securitaria permanente, qualunque gesto di clemenza viene percepito come un cedimento, e la pena si trasforma in un elemento di comunicazione elettorale prima ancora che in un istituto giuridico. È la logica foucaltiana per cui la società punisce non per correggere, ma per rassicurare sé stessa.

L’ambiguità di Nordio

La seconda ragione è che il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha incarnato un garantismo selettivo. Sulle intercettazioni e sull’abuso d’ufficio si è espresso con convinzione liberale; sul carcere ha mantenuto una posizione rigidamente amministrativa. La terza ragione è che il carcere è il grande rimosso della democrazia italiana. Ogni società ha un luogo dove nasconde ciò che non vuole vedere.

Il carcere ignorato

Molto spesso quel luogo è rappresentato delle carceri. Vi finiscono non solo i reati, ma le crepe della sanità mentale, le dipendenze, la marginalità sociale, il disagio che non ha altra destinazione. È un fuori scena che non genera consenso, non produce capitale politico, non offre vantaggi in termini di voti. E così resta lì, invisibile e sovraffollato. Basti pensare che, a dispetto dei richiami all’articolo 27 della Costituzione, per il quale la pena non può essere contraria al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato, l’Italia mantiene il 41-bis come regime eccezionale diventato normalità permanente, e l’ergastolo ostativo come negazione assoluta di ogni prospettiva di rinascita, persino dopo i richiami della Corte costituzionale e della Cedu.

Il balletto

E così, in un Natale imminente, tra celle senza riscaldamento, sovraffollamento incompatibile con ogni standard europeo, decine di suicidi in pochi mesi, come può apparire da dentro questo balletto di posizioni inconcludenti se non come un inganno, come un tradimento istituzionale, come l’ennesima illusione somministrata non a chi soffre, ma a chi osserva da fuori e vuole sentirsi assolto dalla propria indifferenza? Chi è in carcere non vede nel “mini-indulto” una promessa: vede un varco che si apre e si richiude, l’ennesimo ricordo che la sua vita è una materia amministrativa e niente più.

Un test di realtà

Ma proprio per questo il carcere è un test di realtà per noi: ci dice chi siamo davvero e cosa resta della nostra idea di giustizia. La Russa ha evocato l’umanità, ma il sovraffollamento è un’urgenza costituzionale, un punto di rottura della dignità repubblicana. Se davvero questo tema ha trovato una voce nelle istituzioni, allora adesso servono atti: un messaggio alle Camere, una riforma delle misure alternative, investimenti nella salute mentale, l’aumento dei magistrati di sorveglianza, un ripensamento non ideologico del 41-bis e dell’ergastolo ostativo. 

L’alibi morale

Tutto il resto – comunicati, appelli stagionali, gesti simbolici – rischia di diventare un alibi morale, una exit strategy retorica che elude il problema invece di affrontarlo.  Perché, a conti fatti, non sono più le carceri ad aver bisogno della politica: è la politica che ha bisogno di ritrovare, in quel luogo oscuro, la misura del proprio coraggio civile.

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