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Quel Paese che ha paura di soldati e studenti

Più che della militarizzazione dell’Ateneo, i docenti di Bologna mostrano di aver paura dei loro studenti

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A quanto pare il Dipartimento di filosofia dell’università di Bologna non inaugurerà un corso dedicato agli allievi ufficiali del nostro esercito, come quest’ultimo aveva richiesto. La motivazione è categorica: rischierebbe di “militarizzare” l’università. Forse temono che la presenza dei soldati galvanizzi gli studenti, i quali potrebbero riversarsi in piazza Maggiore gridando “a chi la vittoria? A noi!” e poi partire, armi in pugno, per riprendersi Fiume e l’Istria. O magari Nizza e la Savoia, con ripercussioni diplomatiche indescrivibili. Oppure, la sola vista di una divisa nei corridoi potrebbe innescare una mutazione estetica e intellettuale irreversibile: nel giro di una settimana i dottorandi comincerebbero a presentarsi in mimetica, i professori sostituirebbero le sciarpe bianche con mostrine regolamentari, e gli studenti di magistrale inizierebbero a chiedere tesi su “Heidegger e il Blitzkrieg”, consegnandole con tre mesi d’anticipo e con un’efficienza sospetta. O ancora, i filosofi paventano che un reparto dell’esercito si offra spontaneamente di riorganizzare la logistica dell’ateneo: archivi rimessi in ordine in quarantotto ore, aule prenotabili senza traumi, microfoni sempre funzionanti. Un colpo di Stato silenzioso contro il marasma amministrativo che regna da decenni. La verità, però, è un’altra: dietro la foglia di fico della “militarizzazione” (che non vuol dire nulla) i professori di Bologna – come ovunque in Italia – nascondono il fatto di essere ostaggi degli studenti. O meglio: di quelli che all’università ci sono finiti perché li hanno costretti i genitori e adesso, non sapendo che pesci pigliare, ne approfittano per dare libero sfogo alle loro astratte passioni ideologiche. Sono tanti, soprattutto nelle vecchie facoltà “umanistiche”. E i professori sanno che, se venisse attivato un corso dedicato ai militari, scoppierebbe l’inferno, “okkupazioni” che durano semestri, megafoni che gracchiano da mattina a sera, seminari di lotta e resistenza. Per questo dicono di no: per paura.

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I militari e la formazione filosofica

Nelle punte di lancia dell’Occidente – USA, Israele, Germania – la formazione filosofica per i militari è una cosa scontata. Per limitarci al nostro continente, la Bundeswehr possiede dal 1956 un’istituzione per approfondire il lato filosofico dell’essere soldati: il Zentrum Innere Führung, il Centro per la “leadership interiore”. Gli ufficiali tedeschi vengono istruiti non solo alla disciplina e all’obbedienza, ma anche alla Führungsphilosophie, la “filosofia del comando”, importantissima dentro un esercito che, fin dalle sue origini prussiane, valorizza, anche negli ufficiali subalterni, l’autonomia di giudizio e la capacità di prendere decisioni indipendenti e adeguate alla situazione. Se una catena di comando troppo rigida assomiglia a un meccanismo a orologeria che trasmette il moto ma non è in grado di produrlo da sé, l’esercito organizzato secondo la “filosofia del comando”, al contrario, è come un motore intelligente in cui ogni componente elabora le informazioni a mano a mano che la battaglia evolve, e riesce così a ricalibrare il proprio funzionamento. Tornare di continuo sui propri passi, che è una cosa molto speculativa, è una virtù che il generale-filosofo Von Clausewitz esalta in Della guerra: “Gli uomini ordinari, che obbediscono a suggerimenti esterni, divengono quasi sempre irresoluti al momento decisivo (…) Ma anche chi ha concepito i progetti da solo e vede poi con i propri occhi, arriva facilmente a dubitare delle proprie convinzioni anteriori”. Chi teme che la presenza di militari offuschi la purezza accademica dovrebbe informarsi: storicamente è proprio l’esercito a richiedere conoscenze analitiche, rigorose, critiche, utili per migliorare il proprio lavoro.

Il militare-filosofo e quello che gli accademici non sanno vedere

C’è un’antica affinità tra la filosofia e l’arte militare. Platone diceva che “chi sa vedere il tutto è filosofo, chi no, no” e se oggi esiste un mestiere nel quale è necessario avere uno sguardo lucido su un complesso di cose disparate, è quello di soldato. Alla faccia dell’idea che sia un semplice esecutore, il militare contemporaneo è una figura che deve tenere insieme una quantità di elementi che nessun professore confinato nel suo iper-specialistico “campetto” saprebbe affrontare. Non si limita più – per dirla brutalmente – ad “ammazzare le persone”: deve saper avere a che fare con tecnologie avanzate, variabili politiche, norme internazionali, psicologia dei gruppi, logistica in ambienti ostili, scenari che mutano ogni cinque minuti, catene di comando multilingua. Il campo di battaglia non è un luogo isolato, ma un nodo dentro una rete fittissima di relazioni economiche, diplomatiche, culturali e mediatiche. Il combattente deve prendere decisioni tattiche senza perdere di vista la strategia, occuparsi di un fronte senza dimenticare l’altro, interpretare segnali minimi senza smarrire il quadro generale. La guerra moderna è uno spazio in cui non si fa niente senza sapere che quella cosa è collegata al resto. Qui entra in gioco la filosofia. Non come edificazione morale o passatempo antiquario, ma come senso per il tutto, come capacità di percepire il sistema in cui ogni atto è immerso.

Il rigore dell’esercito e la bolsaggine delle università

Questo “sguardo grandangolare” è un’arte difficile e necessaria, ed è il motivo per cui, nelle democrazie più evolute, la formazione filosofica dei militari non è un orpello, ma un requisito. È l’opposto di ciò che accade oggi nei dipartimenti italiani, dove chi “vede il tutto” viene trattato con un certo fastidio, e chi si occupa del dettaglio viene considerato un’autorità. Ma esiste ancora qualcosa come una “autorità” nella nostra università? Nell’esercito la catena di comando funziona, nelle università no. Forse questo è un altro motivo per cui l’università non vuole i militari: non per via delle pistole nella fondina, ma perché portano con sé l’idea scandalosa che, a un certo punto, il pensiero possa diventare azione e qualcuno debba assumersi la responsabilità di decidere. In università, invece, non comanda nessuno. O meglio: comanda la forma peggiore di potere possibile, quello di una burocrazia senza volto che decide tutto senza rispondere mai di nulla. Un potere ferreo e al tempo stesso idiota, un comando senza comandante, una catena di ordini che non porta da nessuna parte. E la cosa buffa è che professori e studenti, più si dicono barricaderi e sovversivi, più si piegano a questo potere con la stessa docilità bovina con cui i travet piemontesi obbedivano ai regolamenti delle Regie cancellerie sabaude, quando anche spostare una sedia richiedeva un nulla osta controfirmato dal ministro. Se si tratta di resistere alla burocrazia, nessuno muove un dito. Ma se c’è da protestare contro l’arrivo di quattro allievi ufficiali, scoppia la rivoluzione permanente. Nella sua perversione, è un sistema perfetto: la burocrazia comanda ciò che non serve, gli studenti si ribellano contro ciò che sarebbe utile, e i professori si piazzano prudentemente nel mezzo, sperando che nessuno si accorga che non contano più nulla e il loro potere di decisione è ridotto a zero.

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