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Cosa non va nel dibattito sull’educazione sessuale

Nel dibattito politico sull’educazione all’affettività quello che viene lasciato da parte conta più di quello che viene detto


La polarizzazione imperante

Che cosa non va nel dibattito politico sull’educazione sessuale, riattivato, la settimana scorsa, dalla discussione alla camera sul ddl sul consenso informato e ieri dalle parole dei ministri Nordio e Roccella? Una prima cosa che non va è questa: non conta più che si parli di transizione energetica, cambiamenti climatici, del ruolo del Quirinale e del modo in cui cui le altre istituzioni vi si relazionano; ancora, non conta che si parli di separazione delle carriere, di imposta patrimoniale o, appunto, di educazione sessuale. Quello che conta è da che parte si sta, senza sfumature né mediazioni e, di conseguenza, senza la capacità di comprendere perché ci si trovi da quella parte o dall’altra.

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Cosa manca a destra

Insomma, la prima cosa che non va è che il dibattito sull’educazione sessuale ricalca esattamente la stessa divaricazione delle posizioni che si riscontra rispetto a ogni altro tema al centro del dibattito pubblico. Questo fa sì che, in questo dibattito come nel dibattito sui temi menzionati, ciò che è davvero importante non stia in ciò che si dice, ma in quello che si lascia da parte. A destra, ad esempio, non farebbe male riscoprire che il sesso, il corpo, fanno parte del bagaglio culturale del pensiero “conservatore” tanto quanto fanno parte del corredo filosofico del pensiero “progressista”. Allo stesso modo, il principio della laicità educativa, oscurato da generici richiami a Dio, alla Patria e alla Famiglia, è un principio liberale classico che oltrepassa gli steccati politici, attraversa e anima il Risorgimento e arriva dritto a quel Giovanni Gentile artefice della “più fascista delle riforme”, la riforma della scuola del 1923 che sì introduceva l’obbligo dell’insegnamento della religione, ma solo per poi superarlo, in ottemperanza al principio idealista della superiorità del concetto filosofico rispetto alla rappresentazione religiosa. Non ha senso arroccarsi sulla difesa del carattere esclusivo della famiglia nell’ambito delle agenzie educative ed evitare di vedere i mutamenti di quell’istituto anche soltanto negli ultimi quaranta o cinquant’anni. E ancor meno senso ha evocare una presunta resistenza alla parità dei sessi iscritta nel codice genetico del maschio, quasi a voler ricondurre all’incorreggibile legge di natura qualcosa su cui il diritto positivo, quello costruito dagli uomini e dalle donne, è anzitutto chiamato ad agire. Su questo come su altri temi la destra si limita ad assestarsi sulle proprie posizioni in maniera puramente reattiva e si condanna così a una totale dipendenza dialettica dalle posizioni a cui si oppone. L’impressione è che il richiamo all’importanza della famiglia nell’educazione dei giovani non sia difesa per convinzione, ma perché appare come un buon modo per contrastare chi, dalla parte opposta della barricata, reclama a gran voce l’introduzione dell’educazione all’affettività nelle scuole.

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Cosa non si vede a sinistra

La seconda cosa che non va nel dibattito sull’educazione sessuale è che la delega automatica del suo insegnamento a presunti esperti del settore viene sbandierata come la panacea di ogni male: di nuovo, molto più dei punti attorno a cui orbitano le argomentazioni dei sostenitori, quello che conta è ciò che va perso. L’educazione sessuale ha senso se è davvero tale: deve servire ad educare, non a istruire. Così come viene pensata, propugnata e sbandierata dai suoi corifei, rischia di essere l’ennesimo tassello che va congestionare ulteriormente un dispositivo burocratico già ingolfato come quello dei curricula scolastici. Nella smania di apparire nuovi, al passo con i tempi, i progressisti imbracciano la bandiera dell’educazione sessuale, facendo perdere di vista che l’educazione agli affetti si forma certo a scuola, ma non soltanto a scuola e non certo attraverso la delega di uno specifico insegnamento. Si struttura, piuttosto, nella complicità tra tutti gli insegnamenti scolastici, tra le agenzie educative e le pratiche discorsive in cui il giovane abita e cresce. Il modo più laico e liberale di considerare la cosa, sarebbe forse quello di avviare un’indagine sui paesi dove questo tipo di insegnamento è presente, senza voler essere esterofili e al di là dell’automatica e non del tutto legittima correlazione tra l’esistenza dell’educazione all’affettività e il numero di femminicidi e violenze contro le donne. Lì funziona o non funziona? Con l’introduzione di un insegnamento di questo genere la cultura di un Paese guadagna o perde? Purtroppo, però, in questo dibattito come in altri l’essenziale passa in secondo piano e lo spazio del confronto è occupato dalle schermaglie verbali.

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