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Il giornalismo nella Costituzione: una proposta per guarire la democrazia

EDITORIALE

La libertà di stampa non è minacciata solo dalla censura, ma dalla perdita di senso e responsabilità del giornalismo. Serve riconoscerlo come potere costituzionale

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La domanda attraversa ogni discussione pubblica: la libertà di stampa è in pericolo? Ritorna come un riflesso ogni volta che un governo occupa con personale di stretta osservanza gli spazi dell’informazione pubblica, ogni volta che un giornalista viene querelato, ogni volta che una redazione denuncia pressioni o censure. Ma il problema, oggi, è più profondo.

Non riguarda solo le interferenze del potere politico, ma anche i pregiudizi e i conformismi che s’impongono attraverso la cultura di massa e che sono i veri poteri occulti del sistema. Riguarda la tenuta della democrazia e la salute dell’opinione pubblica.

Perché la libertà di stampa non vive nel vuoto. Vive dentro una società capace di distinguere tra informazione e propaganda, tra critica e insulto, tra inchiesta e spettacolo. E quando questa capacità si perde, quando l’opinione pubblica si ammala, si ammala anche la democrazia. La sostanza della democrazia non è solo nelle urne, né nei testi costituzionali.

È nella piazza libera delle idee, nello spazio aperto dove una comunità si confronta sui propri destini, discute, argomenta, si forma un’opinione matura e consapevole. Senza quella piazza, la democrazia diventa un involucro vuoto. Le leggi restano, ma perdono legittimità. Le istituzioni sopravvivono, ma senza fiducia. E il voto stesso si trasforma in rito, non in scelta.

Il giornalismo è il manutentore di quella piazza. È il custode della conversazione civile. Ha il compito di tenere aperto il luogo simbolico in cui la società pensa se stessa, misura i propri valori, riconosce i propri errori. Non è un diritto individuale di espressione, ma una funzione pubblica che plasma la coscienza collettiva. Nei regimi in modo autoritativo e eticizzante, nelle democrazie con una pedagogia della libertà, ma in ogni caso attraverso un contributo decisivo delle élite della comunicazione.

Eppure, proprio questa funzione oggi si sta dissolvendo. Il giornalismo è diventato parte del problema. Cede ai linguaggi del populismo che dovrebbe contrastare, si appiattisce sulle logiche del consenso, rinuncia al ruolo critico. Si fa megafono delle tifoserie, cassa di risonanza delle paure, campo di battaglia per fazioni contrapposte. È un giornalismo che non filtra ma amplifica, non spiega ma urla. Soprattutto, è un giornalismo che confonde la sua naturale vocazione a parlare in controtendenza con la ricerca delle contraddizioni nel campo di coloro che elegge come avversari, e non come una salutare messa in discussione dei presupposti e delle ipotesi di indagine da cui parte.

Così facendo, perde il suo connotato intellettuale e scientifico, cioè il suo privilegio di falsificare le proprie stesse acquisizioni, giocando in un certo senso contro se stesso, con un’educazione a riconoscere e sorvegliare il potere che è dentro di sé. E si trasforma invece in un cane da guardia del nemico. In un contesto in cui il populismo dilaga nelle piazze delle idee, questo modello di giornalismo, invece di proteggerle, le incendia. Così l’opinione pubblica perde maturità, si impoverisce, si deforma. È il cuore della crisi democratica: la perdita di una opinione pubblica consapevole.

Non è un caso che tutte le grandi crisi della democrazia contemporanea – dal trumpismo alla disinformazione pandemica, dalle guerre culturali all’uso politico della giustizia – abbiano una radice comune: la rottura del patto tra verità e informazione. La libertà di stampa non è in pericolo solo quando viene censurata, ma quando si svuota di senso, quando smette di esercitare la sua funzione di garanzia. Ecco perché non basta più difendere genericamente la libertà di stampa. Serve un salto di qualità. Serve riconoscere che il giornalismo non è un orpello liberale, ma un potere. Al pari del legislativo, dell’esecutivo, del giudiziario. Un potere autonomo, fondato sulla responsabilità, dotato di garanzie e di limiti, capace di proteggere la democrazia dalla sua erosione interna, o di contribuire a inquinarla.

Riconoscere il giornalismo come quarto potere costituzionale significa dargli la dignità e la struttura che la Costituzione assegna agli altri poteri. Significa affermare che l’informazione non è solo un mercato, non è una proprietà privata, non è un territorio di occupazione politica. È un servizio pubblico della democrazia. Un presidio di verità e di equilibrio. Come ogni potere, anche il giornalismo deve avere regole e confini. Non può invocare libertà senza assumersi responsabilità. Non può rivendicare autonomia senza garantire pluralismo, competenza, trasparenza. La libertà non è arbitrio.

È disciplina della parola. È capacità di rendere conto ai cittadini, non di parlare al loro posto. Per questo la libertà di stampa va costituzionalizzata. Non per limitarla, ma per rafforzarla. Per darle strumenti di protezione contro il potere politico e contro l’anarchia del mercato. Per restituirle la funzione originaria: custodire la piazza pubblica, mantenere viva la consapevolezza civile, difendere la verità come bene comune. In che modo? Non certo attraverso indicazioni autoritative, divieti, prescrizioni. Responsabilizzare il giornalismo in forme liberali vuol dire dargli strumenti pari ai compiti che assolve.

Vuol dire per esempio un percorso accademico proprio, cioè una laurea in giornalismo, che ad oggi non esiste in Italia, fondata su un sapere teorico tutto da costruire, e un percorso di specializzazioni per ciascuno degli ambiti di applicazione del giornalismo, che sia la teoria e la tecnica della scrittura giornalistica, la tecnica dell’intervista o dell’inchiesta, o le singole applicazioni tematiche del giornalismo alla politica, all’economia, alla scienza, al costume, allo sport. Vuol dire costruire un sapere robusto, coerente, che rappresenta la prima forma di qualificazione e di protezione del giornalismo e della società di cui il giornalismo è funzione. Poi, vuol dire qualificare l’accesso alla professione attraverso un percorso rituale e riconosciuto, quale presupposto per l’esercizio della stessa.

Vuol dire quindi riconoscere l’essenza di una mediazione giornalistica quale fondamento di questa professione. Che significa in concreto? Ciascuno può esprimere le sue opinioni in libertà, secondo un diritto di manifestazione del pensiero che la Costituzione riconosce agli articoli 15 e 21 e che è insopprimibile. Ma chiunque eserciti un’attività di comunicazione in forme organizzate, diretta a una massa critica di opinione pubblica, deve avere titoli e responsabilità adeguati alla complessità del ruolo che svolge. Da ultimo vuol dire qualificare attraverso un riconoscimento costituzionale i ruoli di rappresentanza, di controllo, di disciplina per una professione così complessa e decisiva per la democrazia. In tutte le grandi democrazie liberali, il giornalismo è stato il perno invisibile del sistema: il luogo dove si formava la razionalità del dibattito pubblico.

Quando quel perno si spezza, la politica scivola nel populismo e la società nell’odio. È quello che sta accadendo. Non per censura, ma per svuotamento di senso. La domanda iniziale dunque si rovescia. La libertà di stampa non è in pericolo perché qualcuno vuole sopprimerla. È in pericolo perché non sappiamo più riconoscerne la funzione. Rimettere il giornalismo al centro della Costituzione significa restituirgli autorevolezza e responsabilità. Significa riaffermare che senza un’informazione indipendente, rigorosa, capace di distinguere fatti e opinioni, la democrazia non ha radici.

Una comunità democratica vive di parole condivise, di verità discutibili ma verificabili, di confronto civile. Il giornalismo è la linfa che tiene aperta quella conversazione. Se si corrompe, si corrompe il linguaggio con cui la società pensa se stessa. La libertà di stampa non si difende solo dai governi. Si difende anche dal conformismo, dall’arroganza del potere mediatico, dalla riduzione del dibattito a spettacolo tra opinioni ignoranti. E si difende soprattutto riconoscendone il rango costituzionale: non come privilegio, ma come pilastro della vita democratica.

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